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Una ciambella inverosimilmente buona senza uova, senza latte, senza burro e senza olio. Light??…un dolce “senza”.

 

Da qualche parte ho letto che più lo smalto per unghie è un rosso pieno, più la donna che lo indossa ha potere. Se Cleopatra usava indossare un cremisi, la mia scelta d’istinto cade sul vermiglio. Sto ancora cercando il famoso “rosso corsa”, quello storico delle Ferrari, ma ahimè, la moda è in terribile ritardo rispetto ai miei gusti. Tutta questione di impercettibili, adorabilmente superflue e superficiali sfumature, che, tuttavia, nutrono e completano la parte vanitosa dell’anima femminile che inevitabilmente e qualunquemente alberga anche nelle donne apparentemente e ostinatamente grigie. Tutta questione di libertà.

” Ida make up” lascia il posto a Ida briciole che vi esporrà le meraviglie di questa ciambella “senza”, sorprendentemente buona, morbida, umida. Un dolce senza uova, senza burro,   senza latte e senza olio che io rifaccio spesso non solo se la dispensa è quasi vuota, ma proprio perché mi piace. Arriva sempre il giorno (arriva, arriva..) che abbiamo il desiderio di un dolcino, ma ci mancano le uova, o il burro, o semplicemente vogliamo preparare qualcosa senza grassi. Lanciamo santo Google e cerchiamo “torta senza burro”, ma inevitabilmente c’è l’ olio. Perplessi continuiamo le ricerche, a tratti ci rassegniamo, poi sperimentiamo, poi ci accontentiamo. Almeno per me è stato così fino ad arrivare a lei. La mia ciambella che più senza non si può. E senza indugiare la condivido con voi, fortunatissimi miei lettori.

Torta senza uova senza burro senza latte senza olio

La ciambella senza uova, senza burro, senza olio e senza latte (per uno stampo da 20 cm di diametro, non diffusissimo ma ve lo consiglio vivamente) prevede:

  • 125 g farina 00
  • 90 g zucchero 
  • 50 g cacao amaro di buona qualità
  • circa 160 g di acqua tiepida
  • 1 banana media e matura
  • mezza bustina di lievito per dolci
  • 50 g farina di cocco (opzionale ma consigliatissimo)
  • 1 cucchiaino di bicarbonato (opzionale)
  • 1 cucchiaino di aceto di mele (opzionale)

Il procedimento, rapidissimo, impone di riunire e mischiare tutte le polveri (farina, zucchero, cacao, lievito, cocco e bicarbonato) ben setacciate in una ciotola, mentre, in un’altra, frullare la banana con l’acqua e l’aceto. Versare la purea così ottenuta nelle polveri e mescolare brevemente il tutto fino ad assorbimento. Deve risultare una pastella né troppo densa, né troppo liquida. Aggiungere un cucchiaio di acqua all’occorrenza. Versare nello stampo ben imburrato e cosparso di farina o, meglio, pan grattato e cuocere a 160°-170° per 30′-45′ circa nella parte bassa del forno statico. Fare la prova stecchino. Far raffreddare avvolta in un canovaccio pulito e non profumato.

La banana non si sente, o un minimo, una sfumatura di banana, va’, ma regala la giusta umidità. Il cocco pure non è invadente, ma da’ una grana un po’ più rustica al tutto. Con il cacao ho abbondato e ci sta tutto!

Ho provato anche la versione senza banana, risultando più un pane dolce. La banana devo confermare essere un ottimo sostituto delle uova.

Buona colazione con la ciambella “light” senza uova, senza burro, senza olio e senza latte!

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Una torta di compleanno in pasta di zucchero e sotto l’albero di Natale la ricetta semplice della crema al latte.

pettirossocake

Un’amica mi ha chiesto una torta per il primo compleanno del primogenito: “Ida, sai, di quelle torte moderne con i pupazzetti, ma la vorrei semplice, natalizia e un po’ diversa dal solito”. La mia traduzione mentale simultanea, la voce sintetica femminile di google translate che è in ognuno di noi, mi ha suggerito: copertura in pasta di zucchero, minimalista e niente supereroi della Marvel. Anche se Batman con la barba bianca sarebbe stato molto carino secondo me. La riserverò a qualche altra amica dagli sfrenati riti pagani. Un ricordo per un attimo ha attivato il mio lato tenero, tutto sorrisi e occhietti da cerbiatta: la storia del pettirosso che qualcuno, forse mia madre, mi raccontava in questo periodo quando un anno, vista l’ora, stava per finire e un nuovo anno stava per cominciare e in mezzo capitava pure Natale. In quell’epoca in cui nevicava seriamente nella mia regione e c’era la possibilità di scorgere tra i rami merlettati di bianco una macchia rossa con un uccellino intorno: l’ Erithacus rubecula.

Pettirosso cake - torta in pasta di zucchero

 Il solitario, agguerrito e spavaldo passerotto mi chiedo se sia consapevole della sua fama dovuta ad una semplice macchia rossa. Nemmeno il pappagallo più colorato ha ispirato  nei secoli tanti miti e leggende. Oltre alla leggenda più famosa che lo vede legato alla corona di spine di Gesù sulla croce, facendolo diventare simbolo di generosità, e a vari altri miti più pagani che lo legano al concetto di anno nuovo, quindi lo caricano del significato della rinascita, ho scoperto che ha a che fare anche con l’usanza dell’albero di Natale. L’avete fatto? Io ancora no. Qui al Sud lo guardiamo ancora un po’ diffidenti, affezionati al caro presepe. Invece no. Abituiamoci all’idea che è un simbolo sacro anch’esso. Un abete rosso che punta verso il cielo, addobbato di palline che ricordano le mele del peccato originale e illuminato a dovere per rischiarare le lunghe notti a cavallo del solstizio. Giovanni Paolo II fu il primo a farlo nella piazza cristiana più rinomata. Non dimentichiamolo qui giù. Spesso in passato invece dell’abete si usava addobbare le case solo con l’agrifoglio, simbolo dell’anno nuovo e la leggenda vuole che tra i suoi rami spinosi un piccolo pettirosso lottava contro lo scricciolo della quercia, simbolo dell’anno calante. Storie celtiche, indoeuropee, discese poi in tutta Europa, o quasi, sono legate all’albero di Natale. E io che pensavo ad un’ origine americana! Ultima curiosità, in Italia l’albero è arrivato grazie alla regina Margherita nella seconda metà dell’ Ottocento.

pettirosso cake- torta in pasta di zucchero

Sì, ma che gusto ha questa torta? Un “semplicissimo” e morbidissimo pan di Spagna al cacao, la mia base preferita, ripieno di crema al latte addolcita con del miele per venire incontro ai gusti del festeggiato. Trovo che la crema al latte sia un tipo di farcitura molto versatile. Una base perfetta, tra l’altro per creme di vari gusti. Basta scioglierci del cioccolato per avere una crema golosissima. Una ricetta molto semplice: per ottenerla, sciolgo 20 g di amido di mais e 50 g di zucchero semolato in 200 ml di latte intero (aromatizzo magari con della vaniglia, o con del miele), mescolo con cura per evitare la formazione di grumi e pongo su fuoco medio fino a addensamento, sempre mescolando. Faccio raffreddare in frigo e poi delicatamente aggiungo circa 200 ml di panna fresca montata non zuccherata. Dico circa perché dipende un po’ dalla consistenza che voglio ottenere. Questa dose va bene per farcire uno strato di una torta da 24 cm di diametro oppure due strati di una torta da 15 cm di diametro come questa per 6-8 persone.

Il pan di spagna così farcito è stato poi stuccato con della crema al burro meringata e, una volta solidificata quest’ultima, ricoperto di pasta di zucchero e amore.

Pettirosso cake - torta in pasta di zucchero

Buon compleanno al festeggiato nato in uno dei periodi più intensi dell’anno, carico di emozioni contrastanti e di tradizioni da scoprire, riscoprire, raccontare e, perché no, da inventare. Come madre mi auguro di riuscire a trasmettere la magia del Natale ai miei figli e come donna di meritarmene un po’.

A presto.

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“Avendo la prosa una lettera di troppo, la rosa scelse la poesia”(R.S.), il burro e il Pan di Spagna.

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Oh mamma! E’ cambiato WordPress durante questo anno e mezzo di assenza. O meglio, sembra che abbiano solo cambiato le posizioni dei pulsanti del pannello di noi amministratori. Come quando mia madre tornava a casa e trovava la mia cameretta completamente stravolta. L’armadio al posto del letto, la scrivania al posto del como’, la finestra al posto del balcone e mio fratello, mio giovane coinquilino, in soffitta. Sempre gli stessi mobili, sempre gli stessi figli, ma là dove c’era l’erba ora c’è una città e qualche graffietto lieve sul parquet. Quindi capisco in pieno gli informatici di WordPress: a volte si ha la necessità di cambiare prospettive. E di cambiarle di conseguenza, in molti casi, anche agli altri.

Buttercream flowers cake

Qualche annetto fa aprii (quante iii???) questo blog perché improvvisamente, quando ormai avevo perso speranze, farina e uova, un pan di Spagna (PDS) cominciò a prender forma nel mio forno. Senza particolari trucchi, seguendo la ricetta classica 30 g di zucchero e 30 g di farina “00” per ogni uovo, montando zucchero e uova a temperatura ambiente per una quindicina di minuti e aggiungendo la farina, ben setacciata, in due riprese con movimenti dal basso verso l’alto facendo attenzione a non smontare il composto. Cottura a 170°, statico. Stop. A chi non riesce rispondo: è il pan di Spagna e scegliere te e non viceversa! ” Idaaaa, dì la verità, metti il lievito?”. No. ” Idaaa, dì la verità, per le torte alte ne fai due e li sovrapponi!!”. NOO. Per un dato stampo, più uova si mettono più viene alto. Ovviamente lo stampo deve avere i bordi della giusta altezza. Ad esempio, per questa torta ho utilizzato uno stampo da 20 cm e con quattro uova mi è venuto di 5 cm circa, se ne avessi messe 7, avrei sfornato un PDS di 10 cm. Ognuno poi fa le proprie esperienze con i propri stampi.

Buttercream flowers cake

Già vi ho detto troppo riguardo la fisicità di questa base dolciaria della nostra tradizione. Ciò che conta è che mi ha aperto un mondo di passioni e mi riporta qui stanotte, nonostante i miei cambi di prospettiva costanti, con i quali, ahimè, ho capito di dover vivere per sempre. Il burro era quasi bandito da questo blog. Ma avete mai provato a formare una rosa, un tulipano con una soffice crema al burro? Dovrebbero inventare la “crema al burro terapia”, la “Buttercream therapy”. Almeno con i soggetti come me, funziona. Quindi se non vi richiamo subito, se non rispondo ai messaggi, o impilo perline o studio come ottenere il bucato perfetto con la pallina di carta stagnola o pianto spinaci o passo il panno antistatico perfetto sul parquet perfetto o imburro la cucina di rose e boccioli vari. Sì, ma a che gusto è questa torta scopiazzata da Pinterest (tutta colpa di Pinterest)? Gianduia fondente e nocciola. Un cremino, alla fine. Abbiate fede e dopo che avrò finito il porta vaso in macramè, stile boho-chic, forse, se mi va, vi scriverò la ricetta di queste farciture.

L’edace tempo, mi costringe a dirvi buonanotte..o buongiorno.

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Torta essenziale di mele, arancia e mandorle relativamente light. Falla che è buona.

All’apice di un periodo personale burrascoso, nel momento di maggior disordine intorno a me, tra pacchi, mobili non più immobili in giro per casa in cerca di una posizione, odore di pittura, polvere ed estranei dipinti di bianco in cerca di caffè, ritrovo la mia serenità e ricomincio a sfornare torte. Sono la prova vivente che dal caos può nascere l’ordine. Piano piano eliminando il superfluo, pacchi di vecchi maglioni del liceo e trenta paia di jeans tutti uguali, pacchi di scarpe arcobaleno, pacchi di negatività, insomma “pacchi”, alleggerisco appartamento, pensieri e vita e ritrovo l’essenziale. Forse. No! Sì, ritrovo l’essenziale.

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Farina, uova, zucchero e pacchi di mele. Una torta di mele ridotta ai minimi termini. Non una torta light senza burro, olio e grassi, ma una torta di mele quasi senza torta. Raccontando di lei e recitando i minimalisti ingredienti vi verrà spontaneo dire: ” Falla che è buona!”. Senza troppe spiegazioni.

Torta di mele light

 Ricetta per uno stampo da 20 cm di diametro:

  • 650 g di mele (io golden), circa tre
  • 100 g di farina 00
  • 90 g di zucchero
  • 100 ml di latte a temperatura ambiente (mezzo bicchiere)
  • 2 uova a temperatura ambiente
  • 2 cucchiaini di lievito per dolci
  • la buccia grattugiata e il succo di un’arancia (un bel tarocco)
  • un pizzico di sale
  • mandorle a lamelle

Preriscaldare il forno a 170° statico e rivestire lo stampo con la carta da cucina bagnata e strizzata. Sbucciare le mele, ridurle a cubetti e bagnarle con il succo dell’arancia. In una ciotola mescolare con cura lo zucchero, la buccia grattugiata dell’arancia, i tuorli, il sale, il latte e la farina ben setacciata con il lievito. Basta un mestolo di legno, ma se dovessero formarsi grumi consiglio di usare le fruste elettriche per rimediare. Aggiungere le mele e il succo dell’arancia. Con delicatezza incorporare gli albumi delle uova, montati a neve, con movimenti dal basso verso l’alto. Versare nello stampo, cospargere la superficie di mandorle e cuocere per 40 minuti nel ripiano più basso del forno. Vale sempre la prova stecchino. Sfornare e far raffreddare prima di staccarla dalla carta.

Con il benestare dell’imbianchino che ha gradito insieme al caffè.

Ben ritrovati.

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Food Blog Awards 2014 Malvarosa Edizioni. Ischia e l’insostenibile leggerezza di un premio.

Orgoglio, felicità ed euforia sono coperti da un velo sottile di imbarazzo. I premi mi fanno quest’effetto, un po’ come quel sentimento malinconico che ci prende ai compleanni. E’ colpa di quell’invadente e ingombrante lente d’ingrandimento che ti piomba all’improvviso sulla testa, quell’occhio gigantesco che ti scruta per cercare di capire che razza di essere vivente sei e tu sai che non lo capirà mai fino in fondo. Perche’ mi sento una formica deformata nelle sue dimensioni attraverso un mezzo ottico. E’ una contorta sensazione che nasce da chi sa quale problema mentale, di cui tutti, chi di più chi di meno, ne soffriamo. Eppure masochisticamente ogni tanto partecipo a qualche concorso. Preferirei perdere? No.

Per chi in questi giorni non era aldilà della lente, sto parlando del premio che il mio blog, insieme ad altri 22 blog divisi per categorie, ha vinto per la fotografia: la seconda edizione dei FOOD BLOG AWARDS indetto dalla casa editrice MALVAROSA, con il sostegno di Fratelli La Bufala, Pastificio Di Martino, Cantine Pietratorcia, Gran Gusto e Imperatore Travel. La MALVAgia casa editrice, che già nel nome porta l’origine dei miei malesseri, editore italiano di riferimento del cake decorating e del food, artefice di veri libri gioiello che, oltre ad arricchire la mia cucina con piatti del nostro Mediterraneo, arredano la mia casa, mi ha costretto a navigare fino a Ischia per godere del premio.

Ripiena di dimenidrinato, con la nuca calamitata al poggiatesta dell’aliscafo, in compagnia di Anna, redattrice della casa editrice, angelo custode che ha alleggerito con calma e dolcezza la mia ansia, dopo poche onde mi sono ritrovata qui:

Terme manzi Hotel

al TERME MANZI HOTEL, presso Casamicciola terme (Ischia),

Collage4 insieme a loro,

senza titolo-0707appassionate e terribili blogger che ho avuto il piacere di conoscere in questa occasione. Sono solo una parte delle vincitrici. Le altre si aggiravano perplesse ammirando l’originale arredamento della struttura. Dal classico all’orientale, l’oggettistica e l’architettura interna ci parlano della storia dell’isola, attraverso i simboli delle sue dominazioni e dei personaggi illustri di passaggio.

Collage5Terme Manzi Hotel

Terme Manzi Hotel

Il relais, ahime’, era solo un passaggio per le sacre cucine del ristorante Il Mosaico, teatro del Grand Chef Nino Di Costanzo. Il cuore del premio.

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Siamo state incoronate cuoche per due ore di cooking class dallo Chef in persona, sorridente e rassegnato all’invasione di gruppo.

FBA Ischia 2014_Ida Cancro(Foto di gruppo di Massimo Verde)

Le note dei suoi spartiti, dettati da una mente follemente lucida (famosa la sua pasta e patate con 22 tipi di formato diverso di pasta di Gragnano e 3 tipi di patate), le singole componenti delle sue creazioni, vengono eseguite scrupolosamente dalla sua brigata e negli occhi dei cuochi si legge l’orgoglio di far parte di quell’orchestra. Sembra quasi che giocano mentre trasformano le materie prime di alta qualità in piccole opere architettoniche.

fba rid2-001(cilindri di branzino)
senza titolo-0915-2 (patate vetrificate)

Noi siamo state seguite nella preparazione dei ravioli alla caprese, la cui sfoglia si ricava da un impasto di farina cotta nell’acqua bollente e strutto, ripieni di ricotta di bufala mantecata con la maggiorana, conditi con un sugo di pomodorini ciliegini e datterini sapientemente bilanciati e rifiniti con una salsa al basilico. Una semplice goduria.

fba rid3  Collage8

Con il gambero al mandarino e ricottina di bufala abbiamo avuto l’onore di impegnare le nostre mani nell’esecuzione di una piccola scultura dello Chef. Il profumo della salsa ricavata dalle bucce del mandarino, la selezione di oli e i piccoli coralli dei crostini di pane al nero di seppia sulla sfoglia di gambero crudo, sono una sintesi sensoriale del mare e della terra che ci nutre di prodotti di prima qualità.

Collage9 Collage14 senza titolo-0872-2In linea con gli insegnamenti ricevuti nella grande cucina, dopo aver assaggiato i piatti da noi preparati e altre delizie, la Malvarosa ha ben pensato di farci cuocere a bassa temperatura trasferendoci alle Terme del Negombo. Un giardino termale che si arrampica a balze intorno alla Baia San Montano, uno dei più antichi stanziamenti greci d’occidente. Qui si pensa abbia avuto origine la Magna Grecia.

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Piante provenienti da tutto il mondo custodiscono il suono dello scorrere delle acque. Nell’ 88 è stato riportato alle sue origini storiche dal paesaggista Ermanno Casasco, con un intervento umano nel pieno rispetto della sua naturalezza. Percorsi volutamente accidentati e non indicati conducono alle varie vasche di acque termali, ognuna con il suo carattere terapeutico. E’ stato rigenerante anche solo il perdersi in mezzo a quella vegetazione (anche perche’ avevo lasciato il costume in albergo).

E adesso silenzio.

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Collage19 Collage18 fba rid4 senza titolo-0964 (Trattoria Casa Colonica al Negombo)

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Leggenda narra che anche i nostri racconti di quest’esperienza saranno sottoposti a giudizio. Al mio manca qualcosina, visto che ho potuto godere solo di uno dei tre giorni vinti. Rimedio ringraziando la giuria:

il simpatico e affascinante professor Agostino Cattaneo, presidente di giuria, docente presso l’Università Bocconi di Milano;
Donatella Bernabò Silorata giornalista del gruppo Espresso La Repubblica;
Miriam Bonizzi responsabile dell’area blog di Malvarosa Edizioni;
Alessandra Scollo food blogger e autrice di “Le merende di Mamma Papera” che purtroppo non ho avuto il piacere di conoscere in quest’occasione;
la ormai mitica e leggendaria Vatinee Suvimol avvocato e food blogger che finalmente ho abbracciato;
Monica Zacchia direzione del TG5 e food blogger, bellissima;
Massimo Verde food editor di Malvarosa Edizioni ed esperto di comunicazione.
E lei, Rossella Guarracino, la direttrice della Malvarosa Edizione. La mente e il sorriso.

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(Curiosità: Abhaya mudra, il Buddha in piedi con una mano alzata, simboleggia l’offerta di protezione del Buddha ai suoi seguaci e la liberazione dalle paure, ovvero la rassicurazione)

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Gelo di cioccolato. (Budino senza latte, uova e gelatina (giusto per i motori di ricerca))

Settembre è terra di feste di varia natura a casa mia. Tre compleanni, anniversari di matrimonio (anni otto “speriamo di non fare il botto” festeggeremo io e il mio consorte) e onomastici sparsi. Quasi tutti festeggiamenti degni di una torta con candeline. Quindi ecco a voi un bel…. budino. Certo perché alla ricerca di varie basi e creme non troppo sofisticate e nemmeno monotone, mi sono imbattuta in lei: Alessandra. Conoscevo il “gelo di melone” siciliano, anche se non l’ho mai assaggiato, e la versione al cioccolato proposta da lei mi ha subito incuriosito. Avendo tutti gli ingredienti ho provato. E’ una di quelle ricette della serie: “Ma perché non c’ho mai pensato prima?”. E’ una crema che si regge in piedi, senza latte, senza uova, senza gelatina e con l’aggiunta di una noce di burro non ha niente da invidiare ad una comune crema pasticcera al cioccolato. Gelo di cioccolato 3 Gelo di cioccolato 2

Vi riporto la ricetta pari pari perché è perfetta così. Sempre da lei poi troverete dei suggerimenti su come accompagnarlo nonché l’origine della ricetta.

Con queste dosi ho riempito uno stampo da budino di 14 cm di diametro e una formina più piccola.

  • 500 ml di acqua
  • 150 g di zucchero
  • 50 g di amido di frumento (Frumina) (di solito si usa per il classico gelo al melone o al limone per conferire trasparenza e giusta cremosità, ma un qualsiasi altro amido può andare bene)
  • 50 g di cioccolato fondente
  • 30 g di cacao amaro

In un pentolino mischiate lo zucchero, l’amido e il cacao e versate l’acqua, poca alla volta, mescolando con un frustino a mano per evitare la formazione di grumi. Aggiungete il cioccolato a pezzettini e portate dolcemente ad ebollizione su fuoco basso. Appena la crema comincia ad addensarsi spegnete e riempite le formine. Consiglio di usare formine singole, perché la crema è vero che si regge in piedi ma non è “affettabile”. Fate raffreddare a temperatura ambiente e trasferite in frigo per tre, quattro ore, meglio una notte intera. Uso le formine in silicone e non ho problemi a sformare i dolci. Se usate quelle rigide, oliatele prima leggermente.

Auguri, auguri a tutti noi!

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Il mistero del peperone crusco di Senise come scusa per farvi sfogliare il nuovo Taste&More magazine n.10 (Settembre-Ottobre)mentre sognate ancora l’azzurro mare di Agosto

Peperoni cruschi di Senise (IGP)

Manca qualcosa in questa foto? O no? Per me no. C’è il colore della mia regione la Lucania, il rosso della sua terra, e uno dei simboli della sua gastronomia: il peperone crusco di Senise (IGP). Le patatine chips della mia infanzia. Ora sono commercializzati, basta fare un giro in internet e ve li spediscono a casa, ma quelli che mangiavo io erano autoprodotti da mia nonna, così come in tutte le altre famiglie lucane. Ci si procurava il peperone giusto, quello a forma di cornetto con la polpa sottile, si formava  una collana a spirale (‘nserta), angolata di circa 120° unendo i piccioli con ago e spago, e si appendeva ai balconi ad essiccare. Lo si fa tuttora. Era normale per me vedere le finestre ingioiellate di rosso. Solo da qualche anno ho scoperto che viene considerato ” l’oro rosso lucano”. Due secondi contati nell’olio bollente e diventano cruschi, come dite voi? Croccantissimi. E profumatissimi.

Eppure in quella foto manca qualcosa: il testo di una ricetta tradizionale e realizzata a quattro mani con la mia dolce mammina lucana IGP anche lei. Insomma sfogliate il nuovo numero di “Taste&More magazine” (rivista di cucina) dedicato all’autunno. La pag.79 svelerà l’arcano, sempre se ci arrivate perche’ sarete distratti da tutte le altre delizie preparate pensando a come sfruttare gli ingredienti di stagione e al vostro rientro in ufficio, o in officina, o al supermercato, dove vi pare.

Come sempre gratis, cliccate qui sotto per sfogliare la rivista.

Se non dovesse funzionare questo strano aggeggio, cliccate pure QUI, sarete catapultati nel link giusto.

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Fette biscottate e fughe.

Fette biscottate

I 40 anni di una donna oggi, sposata e con figli, sono terrificanti. Non il numero in se’, siamo giovanissime, ma la vita di una quarantenne di oggi è terrificante. Comincio la lamentela? Si’. Il modello familiare primario, marito, moglie e figli, e’ pressoché invariato da secoli. Il marito lavora, i figli spendono e la moglie che si è battuta tanto per le pari opportunità oggi fa doppio lavoro. Ma perche’? Pensavano che uscendo di casa per andare a lavorare poi a casa erano più libere? Si’,  perchè c’e’ sempre una casa incasinata ad aspettarle. E siccome questa lotta per il lavoro l’hanno cominciata le nostre mamme, oggi le nonne lavorano e vanno in palestra. Mica stanno a casa ad aiutare la figlia lavoratrice. Il diritto al riposo per chi lavora, poi, sembra si applichi solo agli uomini. Non lavoro e quindi anche se  le donne acquisissero quel diritto,  ne sarei comunque fuori in automatico. Per non parlare degli uomini che fanno doppio lavoro: doppio lavoro e quindi doppio riposo. Le donne-mamme-un po’ nonne non lavoratrici, come me, dopo aver lucidato l’ultimo copri interruttore della casa e spennellato via la polvere dalle cornicette delle porte all’inglese, continuando a sorvegliare baionetta sulle spalle la prole, assicurando così la continuazione della specie, hanno tutto il tempo di impastare e sorvegliare anche i lievitati. Per regalarmi un brivido nuovo questa volta ho osato con le fette biscottate. A dire il vero avevo preparato un paio di pan bauletti e con il secondo che stazionava in dispensa da un paio di giorni mi sono lanciata in questa nuova esperienza. Quindi non è una ricetta mirata ad ottenere le fette biscottate, ma visto ed assaggiato il risultato, friabile  e fragrante, ve la passo volentieri.

Per 24 fette:

  • 350 g di farina “00”
  • 150 g di farina “0”
  • 150 g di latte intero a temperatura ambiente
  • 100 g di acqua a temperatura ambiente
  • 50 g di zucchero
  • 50 g di burro a temperatura ambiente
  • 1 cucchiaino di lievito di birra disidratato
  • 1 cucchiaino di succo di limone
  • 10 g di sale
  • latte per spennellare

Preparate un lievitino impastando brevemente  i 150 g di farina “0”, i 150 g di latte e il lievito ben mescolato alla farina. Fatelo riposare un’oretta. Quando cominciate a vedere le prime bollicine cominciate ad aggiungere la restante farina e l’acqua, nella quale avrete disciolto lo zucchero e aggiunto il succo di limone, poco alla volta. Ad ogni aggiunta impastate fino ad assorbimento degli ingredienti. Ottenuto un panetto, abbastanza sodo, aggiungete il burro morbido e il sale in due volte. Impastate energicamente fino ad ottenere un panetto liscio, morbido e lucido che si stacca dalle pareti della ciotola in un sol pezzo. Con l’impastatrice cominciate con la foglia e dopo aver aggiunto il burro passate al gancio, alternando basse velocità ad alte velocità. Coprite l’impasto con la pellicola o con un canovaccio umido e fate riposare un’ora.

Riprendetelo, ponetelo su una spianatoia leggermente infarinata e dividetelo in due pezzi. Ricavate due rettangoli, il lato più lungo un po’ più piccolo della forma da plum cake che userete, stendendo un poco l’impasto con le mani. Arrotolateli su stessi e poneteli in due stampi da plum cake da 25 cm di lunghezza. Anche quelli usa e getta. Oppure se avete uno stampo da plumcake più grande, potete anche farne uno solo. Coprite con la pellicola e fate lievitare fino al raddoppio. Per la buona riuscita delle fette biscottate, l’impasto deve essere ben lievitato, ma attenti sempre a non andare fuori lievitazione. Premete leggermente con un dito l’impasto, se la fossetta che si forma ritorna subito deve ancora lievitare, se rimane impressa è già fuori lievitazione e rischiate di ottenere un prodotto troppo compatto, se ritorna lentamente è pronta per essere infornato. Spennellate la superficie con il latte a temperatura ambiente.

Preriscaldate il forno a 170° e cuocete per una quarantina di minuti. Se la superficie dovesse scurire troppo abbassate la temperatura. Sformate e fate raffreddare i pan bauletti avvolti in un canovaccio. Fateli riposare e asciugare uno-due giorni sempre avvolti nel canovaccio. Affettateli ad uno spessore di meno di un centimetro e fatele dorare nel forno preriscaldato a 170° circa per una ventina di minuti su una teglia, rigirandole di tanto in tanto. Devono asciugarsi perfettamente ma non bruciare, quindi se è il caso abbassate la temperatura. Estraetele e fatele raffreddare su una gratella. Una volta fredde, mettetele in un contenitore a chiusura ermetica o in un sacchetto per alimenti. Io vi consiglio come prima volta di provare con un solo panbauletto o con metà, se il risultato vi piace biscottate le altre. Altrimenti mangerete comunque un panbauletto delizioso.

Vi lascio, vado a pulire le fughe delle piastrelle con lo spazzolino.

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Tramezzino Stefano. Ida e l’ufficio anagrafe.

senza titolo-3036-004Sono stufa di elencare gli ingredienti già nel nome della ricetta. Un tramezzino semplice, nato per esigenze dietetiche, aveva bisogno di un nome light. Doveva essere italiano e ricordare un giorno festivo del calendario. L’impiegato dell’anagrafe mi ha guardato e mi ha chiesto: ” Allora?? Ha deciso, signora?”. Sul cognome non c’erano dubbi: ” Tramezzino!”, ho esclamato. Meglio di sandwich come ci ha insegnato D’Annunzio. “Du gust is megl che uan” come ci ha insegnato Accorsi… “Stefano!”, ho urlato. E’ stato complicato come quando ho dovuto scegliere il nome del mio priomogenito. “Stefano!” sussurrai all’infermiera del nido….modificato2Stefano è composto da tre fette di pane per tramezzini integrale e due strati di farcitura. Per la prima farcitura vi basterà tagliare a striscioline una zucchina novella, aggiungere mezza cipollina affettata sottilmente e condire con qualche goccia di succo di limone, un filo d’olio extravergine d’oliva, sale e pepe. Per la seconda invece lavorate con la forchetta un paio di cucchiaiate di ricotta, un cucchiaino di parmigiano grattugiato e aggiungete qualche mandorla o nocciola tostate e tritate grossolanamente. Mettete le zucchine sulla prima fetta di pane e coprite con la seconda fetta che spalmerete di ricotta. Chiudete con l’ultima fetta di pane, tagliate due triangolini e fermateli con uno stuzzicadenti.

Niente di che. E’ solo per rendere più gradevole una dieta e per chi mi chiede ricette semplici e fattibili solo aprendo il frigorifero.

Vi aggiorno sulla data del Battesimo.

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Il sorbetto alle fragole più bello del reame.

C’erano una volta 200 g di fragole (già mondate)IMG_2405-001Incontrarono 50 g di confettura di frutti di bosco e uno sciroppo, costituito da 150 g di acqua fatta sobbollire per 5 minuti con 100 g di zucchero semolato e lasciato raffreddare, 2 cucchiaini di succo di limone e un pizzico di sale. Insieme entrarono in un brutto giro. Lame affilate di un frullatore li ridussero ai minimi termini.senza titolo-2430Emigrarono nel glaciale Polo Nord di un freezer per qualche ora. C’era chi ogni tanto li rimescolava con un cucchiaio di legno, per sminuzzare i cristalli di ghiaccio che si erano formati nel loro cuore.senza titolo-2429-003 Ritornarono trasformati e più uniti di prima, ad alleviare le pene giornaliere di chi decide di fidarsi di loro.senza titolo-2449Note dell’autrice: l’idea di mettere un pò di confettura l’ho presa dal sito Food52. Poi ho bilanciato la ricetta rispettando le proporzioni che prevedono un 50% di frutta, 30% di zuccheri (considerando anche quelli delle fragole e della confettura) e il resto acqua. Ho pensato che la pectina contenuta in essa potesse rendere più cremoso e stabile  il sorbetto. Forse mi sbaglierò ma la coppetta qui davanti a me è tutt’altro che un errore. Rende 500 g di gelato circa. Prima di consumarlo fatelo ammorbidire per una decina di minuti nel frigorifero.

Fidatevi di questa fragolina pasticciona e vivrete tutti felici e contenti.

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Biscotti salati alle nocciole, miele e parmigiano. Pepati.

Tempo fa ho lavorato in una birreria. Per quattro anni. Capita di rimanere soli in una grande stanza illuminata, la sera, dai lampioni di un viale alberato. Nella periferia di una città difficile. Mi son detta: “Se non riesco a girare la città da sola, lascerò che la città giri intorno a me”. Ho chiesto e ho ottenuto lavoro. E compagnia. Molta. E un marito. L’amore. Una cosa non sono riuscita ad ottenere: riuscire a stappare una bottiglia di birra con l’accendino.

Biscottini salati e pizzicosi con un leggero ricordo di miele. Come quello di molte birre. E di molti amori.

Per 40 biscottini:

  • 180 g di farina 00
  • 60 g di parmigiano grattugiato
  • 40 g di granella di nocciole
  • 6 cucchiai di olio di semi
  • 1 uovo
  • 1 cucchiaio abbondante di miele
  • 1 cucchiaino di lievito per dolci non vanigliato
  • 1 cucchiaino di pepe (macinato al momento è sempre meglio)
  • 1 tazzina d’acqua
  • 1 pizzico di sale

Preriscaldate il forno a 170°. Amalgamate il miele, l’olio, il parmigiano, il pepe e il sale. Incorporate l’uovo e l’acqua mescolando brevemente. Aggiungete la farina, setacciata insieme al lievito, e la granella di nocciole lavorando con una forchetta solo fino ad assorbimento. Dovrete ottenere un impasto abbastanza molle da poter usare una sac à poche. Su una teglia rivestita di carta da forno formate dei lunghi cordoni usando una bocchetta a stella di medie dimensioni. Infornate e fate cuocere per 15-20 minuti o fino a doratura. Una volta cotti, tagliateli a bastoncini di circa 3 cm di lunghezza e fateli raffreddare su una gratella.

Semplici e rapidi.

 

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K.A.L. ancòra e ancòra.

Per te che hai bisogno di carezze ancòra.

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Frulla un kiwi

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con il succo di mezzo lime,

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 150 ml di succo di ananas (meglio se centrifugato) e qualche cubetto dello stesso congelato.

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Le vitamine (del gruppo B e la C) e i minerali (manganese) presenti in questo succo dovrebbero giovare soprattutto all’epidermide rendendola più morbida e luminosa. Comincerai a brillare al buio e ad apprezzare un notevole risparmio di energia elettrica. Tutti vorranno accarezzarti e, favorendo la circolazione anche nei punti più difficili da raggiungere, ti aiuteranno a contrastare la cellulite.

(Ricetta tratta dal libro “In forma”, raccolta di ricette della più affermata realtà londinese nell’ambito di fit food e juice bars “Crussh”)

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Street food classico napoletano. Il crocchè.

Crocchè

Bisogna barricarsi mentre si friggono i crocchè. I ladri sono sempre in agguato. Attirati dall’inconfondibile profumo arrivano quatti quatti e con improvvisa disinvoltura attaccano il piatto di portata. Ed hanno ragione. Il crocche è friggi e mangia. E’ una ricetta della cucina classica napoletana che nasce poverissima. Patate, sale e pepe senza impanatura. Ma ahimè nasconde delle insidie. Se non si trova la patata giusta si dissolvono nell’olio di frittura. Almeno a me è capitato spesso. Questa che vi propongo e che si trova nell’ultimo numero del magazine  “Taste&More” è la versione che non mi ha mai deluso. Nata consultando la tradizione, le signore napoletane e la mia cara mammina.

La ricetta si trova a pag. 26 del magazine.

 

[Se non dovesse visualizzarsi l’anteprima cliccare QUI]

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Biscotti frollini senza burro al cacao e ouzo. Righe e linea.

Biscotti frollini light al cacao e ouzoNon c’è niente da fare. Anche all’età di quasi quarant’anni (come suona strano!) mi metto a dieta con un unico pensiero: voler fare la modella. Quando si comincia ad avvertire una certa distanza tra la pancia e il pantalone, ossia quando i vestiti cominciano ad andare larghi, anche la postura cambia. Testa alta e passo sicuro. Poi tutto è relativo. Ognuno si sente bene in una certa taglia. Io mi sento bene nella taglia dei vestiti che ho accantonato nell’armadio, eliminati ad uno ad uno cornetti dopo cornetti. Brioche dopo brioche. Biscotti dopo biscotti. Ma senza deprimermi. Con tranquillità. Il piacere della tavola deve rimanere, anzi forse ne esce amplificato. Con qualche piccolo accorgimento si può dimagrire mangiando in modo gustoso. Chi mi vede mangiare non crede che sto a dieta. Le patate non sono tristemente lesse, ma diventano chips grigliate spennellate di olio aromatizzato. Il passato di verdura diviene una vellutata, le piadine diventano pane arabo e i frullati diventano smoothies. Fortunatamente Santa Pizza è concessa così posso continuare nella mia passione per gli impasti. Così come sono concessi un paio di biscotti a colazione. Da qui è partita la mia ricerca del biscotto magico. Rigorosamente frollino e rigorosamente il più leggero possibile. Ho provato varie ricette, ma con scarsi risultati: biscotto duro o gommoso. Poi sono arrivata a loro. Un frollino base, senza burro ma con olio di semi, friabile e profumato grazie alla fragranza dell’anice che secondo me smorza un pò il sapore, seppur lieve, dell’olio. Soddisfattissima, ma la ricerca continua.Biscotti frollini light al cacao e ouzo.Ho preso spunto dai golosissimi quadrotti alle nocciole di Ale (provate anche quelli se non avete problemi di linea perche’ sono strepitosi) che mi hanno folgorato. In un altro periodo storico avrei provato la versione al burro, che mi riservo tuttavia per Natale. Li ho solo alleggeriti fino al punto di ottenere la giusta friabilità. Biscotti frollini light al cacao e ouzo. Morso. Per 32 biscotti (3×5 cm):

  • 175 g  di farina 00
  • 50 g di amido di mais
  • 20 g di cacao amaro
  • 75 g di zucchero (a velo se volete una grana più fine oppure 60 g di fruttosio per alleggerirli ulteriormente)
  • 80 g di olio di semi di girasole
  • 1 albume d’uovo
  • 2 cucchiaini di lievito
  • 1 cucchiaio abbondante di ouzo o altro liquore all’anice
  • i semini di mezzo baccello di vaniglia
  • 1 pizzico di sale
  • 1 cucchiaio di zucchero di canna (opzionale)

In una terrina lavorate con una forchetta i 75 g di zucchero con l’olio, l’albume, l’ouzo fino a quando lo zucchero si è ben sciolto. Unite il resto degli ingredienti secchi (tranne lo zucchero di canna) ben setacciati e mescolati tra loro, continuando a lavorare con la forchetta fino a quando il tutto è ben amalgamato. A questo punto se volete sentire qua e là qualche granellino di zucchero sotto i denti, aggiungete il cucchiaio di zucchero di canna continuando a lavorare brevemente. Maneggiando pochissimo l’impasto, formate uno spesso rettangolo e ricopritelo con la pellicola trasparente. Fatelo riposare in frigo minimo tre ore. Io suggerisco sempre tutta la notte. Riprendetelo, stendetelo con il mattarello su una spianatoia, leggermente infarinata, fino ad uno spessore di 5-6 mm e ritagliate i biscotti della forma desiderata. Io ho semplicemente ritagliato dei rettangolini 3×5 cm e decorato con i rebbi di una forchetta. Metteteli in una teglia ricoperta di carta da forno e cuoceteli nel forno statico preriscaldato a 170°-180° per una decina di minuti circa. Sfornateli ancora morbidi e metteteli a raffreddare su una gratella. Una volta freddi si conservano in un contenitore ermetico.

Buona colazione!

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Focaccia lucana “senza ungere” con farina di grano duro Senatore Cappelli. Il foro con i buchi intorno.

Chi mi conosce poco poco già sta ridendo. Perche’ conosce la mia fissazione per gli impasti perfetti e soprattutto per i buchi. I buconi, gli alveoli del pane. Sono molto bucolica. Forse non sa però che la mia fissazione era dovuta a lei. La focaccia “senza ungere”, ossia non condita. Qui i buchi sono d’obbligo, perche’ permettono di aprire gli spicchi senza uso del coltello. E’ il massimo del design per una focaccia. Bellezza e funzionalità. Una fetta di mortadella e la “criatura” era contenta. E’molto diffusa in Lucania dove il termine “focaccia” si riferisce proprio a questa ciambella di pasta di pane scondita. Mia nonna la preparava periodicamente insieme al pane. E si consumava prima di aprire la pagnotta ancora calda. Impastava chili di farina rigorosamente a mano. O meglio a cazzotti. Saliva sul ring e si sfogava. La tirava, la ripiegava, la tirava, la ripiegava. Poi arrivava una signora con una lunga tavola in equilibrio sulla testa, prendeva le forme di pane, le marchiava e le portava nel forno del paese. Una vera e propria figura mitologica. Con la tavola in testa andava anche al bar a prendere il caffè. Braccia ad anfora e sfilava. 

E’ una focaccia morbida, leggermente resistente al morso e con una sottile crosta flessibile. Porta con se tutto il profumo del grano. Trattandosi di un prodotto lucano ho utilizzato un tipo di farina di grano duro molto diffusa un tempo al Sud: la Senatore Cappelli. Non perchè voglio fare la figa, ma semplicemente perchè la sentivo nominare spesso dalle mie nonne. In seguito ho scoperto essere una farina ottenuta da una selezione e incroci di grani duri del Sud Italia e di altri paesi del Mediterraneo. Frutto del lavoro e dello studio del  genetista agrario Nazareno Strampelli che nel 1923 cominciò la diffusione di questo tipo di grano duro con ottime caratteristiche di adattabilità e panificazione. Lo battezzò Senatore Cappelli in onore del Senatore omonimo che gli mise a disposizione dei campi di sua proprietà per la sperimentazione avviando così la trasformazione agraria della Puglia in particolar modo. Ben presto si diffuse in tutta Italia. Poi scomparve sostituito da altre tipologie di grano ancora più produttive. Oggi è ritornato come prodotto di nicchia e come dice Bressanini nel suo articolo: “e’ curioso che il grano Cappelli, ora diventato un simbolo della “pasta da gourmet”, fosse una volta il comune grano della pasta di tutti i giorni”. Non un grano antico e tradizionale dunque, ma innovativo ai suoi tempi. Grazie al revival di questa coltivazione da parte di piccoli produttori posso assaggiare un pezzo della mia terra senza muovermi da casa e soprattutto tenere vivido il ricordo di un profumo inconfondibile. Un’ulteriore testimonianza del fatto che il cibo non è solo nutrimento per il corpo.

E’ un impasto molto idratato. Per chi ha confidenza con questo tipo di lavorazione non ci saranno problemi. Per chi non ne ha sono qui a vostra completa disposizione.

Per due focacce:

  • 500 g di farina di grano duro Senatore Cappelli (anche una più reperibile semola rimacinata di grano duro)
  • 420 g di acqua a temperatura ambiente (dipende un pò dal tipo di farina che userete, dovete ottenere un impasto come quello delle foto più in giù)
  • 2 cucchiaini di lievito di birra disidratato
  • 1 cucchiaino abbondante di malto d’orzo o miele
  • 12 g di sale

Impasto e riposo

Setacciate la farina insieme al lievito in una ciotola e mescolate con accuratezza. Sciogliete il malto o il miele nell’acqua. Se usate l’impastatrice avviatela a bassa velocità con la foglia e aggiungete l’acqua quasi a filo. Dopo un po’ aumentate la velocità, ribaltando di tanto in tanto l’impasto con un cucchiaio senza strapparlo. Quando l’impasto si è aggrappato alla foglia e ha pulito la ciotola, aggiungete il sale, passate al gancio e impastate ancora brevemente fino ad ottenere un impasto liscio e lucido. Prendendo un po’ d’impasto e allargandolo questo deve formare un velo trasparente senza strapparsi. A questo punto fermatevi. Non bisogna lavorarlo ulteriormente altrimenti diventa troppo elastico e non forma un’alveolatura ben pronunciata, oltre a surriscaldarsi e a strapparsi. Se lavorate a mano, una volta ben miscelati gli ingredienti, tranne il sale, prendete l’impasto tra le mani e sbattetelo sui bordi della ciotola ripetutamente. Quando l’impasto comincia a compattarsi aggiungete il sale e cominciate a dare qualche giro di piega del tipo “stretch and folding” come mostrato nelle foto qui giù. Ossia prendete un lembo dell’impasto con le mani bagnate, allungatelo e ripiegatelo al centro. Fermatevi quando otterrete il velo di cui parlavo sopra.

Trasferite l’impasto con delicatezza, evitando di strapparlo, in una ciotola ben unta e copritelo con la pellicola trasparente. Fatelo riposare un’ora a temperatura ambiente e poi riponetelo in frigorifero per evitare un’eccessiva lievitazione mentre matura. Il riposo in frigorifero può andare dalle 4-5 ore a tutta la notte (io di solito impasto alle 11, lo ripongo in frigo alle 12 circa, lo riprendo alle 17 e alle 19 inforno. Mi trovo anche con la fascia economica del consumo elettrico). Passate le ore di riposo in frigo fatelo rinvenire a temperatura ambiente per un paio di ore circa. Trasferite l’impasto su una spianatoia liscia e ben infarinata, formate un rettangolo delicatamente senza sgonfiarlo e piegatelo a tre. Ossia dividetelo idealmente in tre parti e piegate il lato più corto verso il centro. Ricoprite con il restante terzo, spennellando via la farina in eccesso. Un tarocco vi sarà molto d’aiuto. Capovolgetelo, dividetelo in due parti e date ai due pezzi una forma a palla senza stringere troppo. Coprite e fate riposare una decina di minuti.

Stesura e cottura

Preriscaldate il forno al massimo e arroventate una leccarda capovolta posizionandola nel gradino più alto. Ponete l’impasto su un foglio di carta da forno ben infarinato e con l’estremità di un matterello ben infarinato praticate un foro al centro. Infilate le mani sotto l’impasto e tiratelo delicatamente, stendendolo e allargando il foro. Appena il forno ha raggiunto la temperatura massima, estraete la leccarda rovente e fatevi scivolare sopra la carta da forno con la focaccia. Posizionate la leccarda sempre sul gradino più in alto vicino alla resistenza e fate cuocere per pochi minuti. La focaccia va “avvampata” diceva la fornaia. Controllate la parte inferiore, se ha bisogno di un’ ulteriore cottura mettetela pochi minuti sul gradino più basso. Nel frattempo stendete la seconda focaccia. Il segreto è che non deve lievitare molto una volta stesa, altrimenti diventa quasi una brioche. Togliete la focaccia dal forno e fatela raffreddare su una gratella coperta da un canovaccio. Infornate la seconda. E’ un tipo di focaccia che può essere e deve esser consumata subito, diciamo nell’arco di una giornata conservata in un sacchetto di carta. Poi tende ad indurire. Quando avanza la taglio a pezzi e la congelo. Una volta scongelata e passata su una piastra ben calda riacquista tutta la sua fragranza.

Mangiata da sola strappando un pezzettino alla volta oppure farcita con salumi e formaggi, per me non ha pari.

Buono studio! Posso sempre prepararvela io…

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“Taste&More magazine”. Ma come si fa?????

Mi hanno obbligato a scrivere questo post. Avevo preannunciato qui l’uscita imminente del magazine “Taste&More” e non vedevo l’ora di mostrarvelo. Una volta vista l’anteprima però c’ho ripensato. Un regalo troppo ricco mette a disagio chi lo riceve e io che, più o meno, vi voglio bene non volevo mettervi in imbarazzo. Ma poi idee per San Valentino, paste all’uovo speciali per mantenere vivo il dopo San Valentino, profumi di arrosti e brasati per farvi invidiare dalla vicina, addirittura filtri magici, un forno virtuale, dolcezze e tanto altro ancora mica si regalano così. Ma la redazione è troppo generosa, ha la mania di donare e ci suggerisce di condividere. Ho provato a desistere, a dire la mia, a fare la voce grossa. C’ero quasi riuscita. Poi loro, sottilmente e con un pizzico di perfidia, hanno scelto una mia foto per la copertina. Ammutolita ho accettato il regalo personale che hanno fatto loro a me e ho deciso di pubblicare. Ancora non ne sono proprio convinta comunque se cliccate sulla foto potrete sfogliare gratuitamente il numero 7 della rivista. E non ringraziate me, per favore.

 Taste&More Magazine N°7-web

Buona visione.

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Brioche allo yogurt (senza burro) e milk roux. La patata bollente.

 Qualcuno lì fuori sa dirmi gentilmente se questo antico metodo cinese di gelatinizzazione degli amidi che conferisce morbidezza e una conservazione più lunga dei prodotti lievitati da forno è veramente efficace? A me è parso di sì, ma non vorrei fosse solo uno di quei fenomeni di allucinazione generale. Un effetto placebo collettivo. Il metodo Tang Zhong, e non ridete, è stato approvato ufficialmente? E’ vero che può sostituire una delle funzioni che svolgono i grassi in alcune ricette? Un’idea io me la sono fatta. Applicandolo ad una ricetta fatta più volte, ho constatato che eliminando del tutto il burro, sostituendolo con un milk roux, ho ottenuto lo stesso una brioche sofficissima e che si è conservata tale un pò più a lungo. Questo perchè, aggiungendo una piccola dose di amidi  gelatinizzati tramite la cottura, ho potuto inserire nella ricetta più liquidi ottenendo comunque un impasto lavorabile. Un pò come quando si aggiunge una patata lessa nell’impasto dunque. Qui si tratta di aggiungere una pappetta, milk roux, tipo quella che si fa per la besciamella, di amido e latte cotti  (o farina e acqua nel caso del water roux). Lo stesso motivo per cui gli gnocchi sono morbidi. Ora devono inventare qualcosa che sostituisca l’aroma del burro. Ma se vi convincete di averlo messo riuscirete a sentirlo in queste brioches. 

Per una dozzina di brioches:

  • 350 g di farina 0
  • 120 g di latte intero (più la temperatura ambiente è alta più freddo deve essere il latte, detto così a grosse linee)
  • 80 g di milk roux (80 g di burro nella ricetta originale)
  • 60 g di zucchero
  • 50 g di yogurt bianco intero
  • 1 uovo intero
  • 1 cucchiaino di lievito di birra disidratato
  • 1/2 cucchiaino di sale
  • qualche goccia di limone
  • aroma (qualche goccia di aroma millefiori o la scorza grattugiata di mezz’arancia o di limone o semini di vaniglia)

Per il milk roux (1 parte di amido e 10 di latte):

  • 100 g di latte intero
  • 10 g di amido di mais

Preparate il milk roux stemperando l’amido nel latte freddo, aggiunto a filo e mescolando continuamente, facendo attenzione a non formare grumi. Riscaldate sempre mescolando fino a quando comincia ad addensare (in teoria andrebbe portato ad una temperatura di 65°). Basterà un minuto o meno. Coprite con una pellicola a contatto e far raffreddare immediatamente nel frigo. Dovrebbe rendere proprio gli 80 g previsti dalla ricetta, più o meno.

In una ciotola mettete la farina setacciata insieme al lievito, l’uovo leggermente sbattuto insieme allo zucchero, gli 80 g di milk roux e iniziate ad impastare aggiungendo il latte poco alla volta. Se avete l’impastatrice non avrete problemi, il composto è un pò molliccio. A mano prendete l’impasto e sbattetelo ripetutamente contro le pareti della ciotola. Piano piano prenderà consistenza, incorderà, e si staccherà dalle pareti in un sol pezzo, tipo blob. Aggiungete il sale e lo yogurt, nel quale avrete messo l’aroma scelto e qualche goccia di limone, e continuate a reimpastare fino ad ottenere di nuovo il blob liscio e lucido. Mettetelo in una ciotola leggermente unta (bisogna far in modo di non strappare l’impasto mai, ungere la ciotola fa in modo che l’impasto si stacchi senza problemi), coprite con la pellicola trasparente e fate riposare per una mezz’oretta. Scoprite la ciotola e fate un giro di pieghe con le mani umide, per rinforzare l’impasto, prendendo i lembi dell’impasto, allungandoli leggermente e portandoli verso il centro. Un video qui. Fate riposare un’ora. Rovesciate delicatamente l’impasto su una spianatoia infarinata, sgonfiatelo leggermente con il palmo della mano e fate delle porzioni da 50 g circa. Formate le brioches, appiattendo leggermente le porzioni e portando i lembi verso il centro, come prima. Sigillate bene, rigirate le palline e fatele roteare sulla spianatoia sotto il palmo della mano. Mettetele in una teglia rivestita di carta da forno ben distanziate, coprite con un canovaccio e fate lievitare fino al raddoppio. Due o tre ore circa, dipende dalla temperatura ambiente. Spennellate con un tuorlo d’uovo sbattuto con un cucchiaio di latte e infornate nel forno preriscaldato a 180° circa per 15 minuti o fino a quando saranno ben dorate. Le brioches hanno bisogno di un tempo di cottura breve, altrimenti induriscono. Una volta raffreddate si possono congelare.

再見!

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Novità di una casalinga. “Taste&More magazine”.

Una delle categorie umane che ha trovato grossi vantaggi nell’era di internet è la casalinga. Non più mite donna che aspetta il marito con le pantofole sull’uscio di casa, ma spietata killer armata di mouse infrared o touch pad intenta ad accrescere le sue passioni e a condividerle con tutto il mondo. Sto ripassando la geografia solo dando uno sguardo giornaliero alle statistiche del blog. Tenteranno di convincervi che internet è un’inutile perdita di tempo. Fallendo miseramente. LORO non sanno di essere uno stimolo a fare di più e meglio. La vostra perdita di tempo potrebbe rivelarsi un momento di crescita. Così fu che un giorno mi ritrovai in un click catapultata nella redazione più che reale di una rivista di ricette on line. Un vero e proprio ufficio capeggiato e organizzato dalla passione, bravura e determinazione di tre donne, Meris, Tiziana e Lara, e alimentato da un gruppo di foodbloggers, chef, cuochi, fotografi, nutrizionisti e grafici. Internet può diventare anche luogo di sogni. Nel magazine “Taste & More” ce n’è per tutti i gusti e tutte le esigenze. Ricette tradizionali, gluten free, quelle a basso costo, le vegetariane, dolci, salate e piccanti. Ad ogni uscita, bimestrale ma non mancano gli speciali, si affronta un tema principale. Il tema del prossimo numero, che uscirà il 5 Febbraio, è la pasta al’uovo fatta in casa, un pò diversa. La mia collaborazione non poteva che cominciare con un tema migliore. Spettatrice da piccola, e nei miei ricordi oggi, delle perfomance delle mie nonne al matterello e al “ferretto”, tagliatelle, fusilli, ravioli, cavatelli, orecchiette e “strascinati” erano la mia pasta quasi quotidiana.Lasagnette per "Taste&More magazine"

La ricetta delle lasagnette in foto la troverete nel prossimo numero di “Taste&More”. Non vi preoccupate. Ci penserò io a segnalarvi l’uscita.

Mi sta a cuore ringraziare Vaty. Grazie ad un suo gentile gesto di condivisione Meris ha conosciuto me e io ho conosciuto Meris ed è cominciata questa piacevole avventura.

La rivista è gratis e sfogliabile on line. Se volete provare a vincere una versione cartacea cliccate qui e provate ad indovinare la ricetta.

Buondì!

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Ravioli di patate ripieni di ricotta. Il bilanciamento del tubero.

Ravioli di patate.Una buona foto di cibo deve parlare senza parole. A un buon fotografo non servono le didascalie per descrivere il contenuto dell’immagine. Quelli che sembrano dei semplici ravioli qui su, in realtà non lo sono. Per far capire in modo immediato che si tratta di una pasta ripiena la cui sfoglia è fatta con le patate, avrei dovuto inserire nell’immagine banalmente dei tuberi terrosi o aspettare un colpo di genio. Il colpo di genio non è arrivato e mi sono rifiutata di immortalare l’ingrediente principale, la patata, accanto alla pasta fresca per una questione di pulizia. Tra l’altro sarebbe sorta comunque un’ambiguità data dal fatto che la patata avrebbe potuto far parte del ripieno. Poverammè. Il fallimento come comunicatrice per immagini viene bilanciato dal piacere di aver scoperto una nuova ricetta. Morbidi e profumati questi ravioli entrano con prepotenza e entusiasmo nel menù fisso della mia trattoria virtuale. 

Ravioli di patate

Per 4 persone o due che saltano la seconda portata:

  • 300g di patate a pasta gialla
  • 80g di farina 00 (ne servirà un po’ di più)
  • 1 tuorlo piccolino
  • 300g di ricotta ben sgocciolata
  • prezzemolo q.b.
  • mezzo cucchiaio di olio extravergine di oliva
  • 1 pizzico di sale

Lessate le patate ben lavate partendo da acqua fredda. Sbucciatele ancora calde e schiacciatele con lo schiacciapatate. Impastatele subito con la farina setacciata, l’olio, il tuorlo e un pizzico di sale fino ad ottenere un impasto morbido ma non appiccicoso. Aggiungere altra farina se necessario (dipende da quanta acqua c’è nelle patate). Fate riposare per un quarto d’ora. Nel frattempo lavorate la ricotta a crema con il prezzemolo sminuzzato e un pizzico di sale. Stendete la pasta, fino ad uno spessore di 2 mm circa, su un piano liscio e ben infarinato. Ritagliate delle strisce larghe 10 cm circa e formate i ravioli disponendo dei mucchietti di ricotta ben distanziati sulla metà di ogni striscia. Ricoprite con l’altra metà della striscia e ritagliate con una rotella o con un coppapasta i ravioli. Chiudeteli con molta attenzione avendo cura di far fuoriuscire l’aria. In questo modo non si apriranno in cottura. Disponeteli su un canovaccio infarinato. Cuocete in abbondante acqua salata e quando salgono in superficie (2-3 minuti) prendeteli con un mestolo forato e adagiateli sul piatto di portata, insieme al condimento.

E’una ricetta trovata su un vecchio numero di “Sale&Pepe”. Io li ho conditi con un sughetto di carciofi e porri ottenuto facendo saltare per pochi minuti il porro e i carciofi, tagliati a spicchietti, in tre cucchiai di olio extravergine di oliva.

Se avete poi bisogno di un cake topper per la vostra torta, vi invito a visitare il mio negozio on line “Lady Topper“. Troverete una Ida Briciole in cucina in versione zuccherosa!

Ben ritrovati!

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Pound cake (plum cake in Italia) al cioccolato bianco e limone. Asincronia.

  Pound cake al cioccolato bianco e limone I miei desideri e le possibilità che mi offre la vita reale sono asincroni. Quando vorrei non posso e quando non posso vorrei. Mi riferisco sia ai grandi desideri, come quello di fare una passeggiata in tranquillità fermandomi magari a guardare qualche vetrina, sia ai desideri spiccioli, a volte solo fisiologici. Quello di andare al bagno, a guardarmi allo specchio, senza il disturbatore di turno che proprio in quel preciso istante ha la necessità impellente di trovare la pallina, proprio quella delle dimensioni di un pisellino primavera e non un’altra delle diecimila sparse in casa. Una mezza vita fa invece andare a fare una passeggiata era quasi una violenza. Solo una grande forza attrattiva era capace di scollarmi dalle pareti di casa mia. Di conseguenza non avevo nemmeno l’esigenza di guardarmi allo specchio. Una mezza vita fa, quando avevo tutto il tempo di gustarmi seduta a tavola una ricca colazione, magari servita, mi svegliavo mentre il mio stomaco continuava a sonnecchiare. Chiuso, blindato, fondamentalista. Oggi invece si alza prima di me, consapevole tuttavia che non ci sarà nessuno a servirlo. Perchè chi si dovrebbe occupare di lui, cioè io, è impegnato a gestire capricci, operare vestizioni e smistare scolari. Dalla regia dicono che questa è la vita normale e che questa fase passerà. E sicuramente il mio stomaco si riaddormenterà. Fortunatamente hanno inventato la merenda e anche lo spuntino di mezzanotte.

Pound cake al cioccolato bianco e limone

Per mangiare come parliamo, la Pound cake è il nome che tutto il resto del mondo dà alla torta che noi in Italia chiamiamo Plum cakeBasta fare una semplice ricerca, plum cake recipe, per rendersi conto che la famosa torta da colazione negli altri paesi è a base di prugne, come giustamente suggerisce il nome. La Pound cakeTorta della libbra, nata nel Nord Europa nel 1700, è una torta che tradizionalmente prevede l’uso degli ingredienti principali, farina, uova, burro e zucchero, nella stessa dose di una libbra (circa mezzo chilo). Nata per venire incontro probabilmente alle esigenze di famiglie numerose e che nel nome ha già in sé la ricetta, facile da ricordare anche da chi non sapeva leggere. Nel corso del tempo poi si è evoluta e trasformata in mille versioni. Si è alleggerita e ammorbidita con l’inserimento del lievito in polvere, dell’olio al posto del burro, con l’aggiunta di yogurt e così via. In Francia cambia nome e diviene la Quatre quarts, quattro quarti, riferendosi ai quarti come unità di misura della capacità. In Italia prende il nome di Torta di prugne. Bah. Lo stesso Artusi, che ha cercato di normalizzare il linguaggio gastronomico italiano, definisce il nostro plum cake ” dolce mentitore del nome suo”. Bah. I procedimenti per combinare insieme i quattro ingredienti sono vari. Ad ognuno di essi corrisponde una consistenza finale diversa. Si possono montare le uova con lo zucchero e aggiungere in seguito burro fuso e farina, oppure montare a parte gli albumi e così via. La ricetta originale non prevede l’uso del lievito. La sofficità viene data dall’aria incorporata durante la lavorazione. Un altro metodo, quello più diffuso nei ricettari e quello usato da me in questo caso, è quello di montare il burro morbido con lo zucchero e aggiungere in seguito uova e farina. Il risultato è una mollica più compatta, umida al punto giusto e ideale per essere inzuppata. Ho diminuito la dose di burro sostituendola con il cioccolato bianco, mantenendo però la stessa percentuale di grassi. Insomma giocando un po’ con gli ingredienti ecco la mia versione golosa preferita.

Per uno stampo a ciambella da 23 cm di diametro:

  • 3 uova (180g in totale sgusciate) a temperatura ambiente
  • 130g di burro a temperatura ambiente
  • 150g di cioccolato bianco (28% di grassi)
  • 160g di zucchero (in origine 180g, ma aggiungendo il cioccolato bianco l’ho ridotto)
  • 180g di farina 00
  • la scorza grattugiata di mezzo limone
  • 1 cucchiaino e mezzo di lievito per dolci
  • 2 cucchiai di acqua calda (facoltativo)
  • 1 cucchiaio di latte

Ridurre a crema il burro lavorandolo con le fruste elettriche e continuare a montare aggiungendo lo zucchero e la scorza di limone poco alla volta. Ottenuta una crema bianca e spumosa (ci vorranno un pò di minuti) aggiungere le uova leggermente sbattute una alla volta. Lavorare il minimo possibile, ossia fino a quando le uova saranno ben incorporate (il composto potrebbe tendere a separarsi, se accade non buttare nulla, aggiungendo la farina si riamalgama). Aggiungere il cioccolato fuso con il cucchiaio di latte e portato a temperatura ambiente e la farina setacciata insieme al lievito, poco alla volta, mescolando delicatamente con un cucchiaio di legno per non smontare il composto. A questo punto io aggiungo un paio di cucchiai di acqua calda a filo per rendere la torta un pò più umida, ma è facoltativo. Versare nello stampo a ciambella ben imburrato e infarinato e mettere nel forno preriscaldato a 170° per 40-45 minuti. La prova dello stecchino confermerà la cottura. Lasciar raffreddare nel forno socchiuso per una mezz’oretta, sformare e lasciar raffreddare su una gratella. Il giorno dopo è ancora più buona.

Buon plum..pound cake a colazione, a chi può!

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Digestive ultra casalinghi. Ricetta con l’olio.

Oggi vi riporto direttamente il mio flusso di pensieri e azioni. Da leggere velocemente, con ansia. Vicino alla scuola dei miei figli vi è un negozietto di articoli biologici o naturali che siano (gli articoli venduti nei negozi convenzionali allora tutte schifezze?) una tentazione dal Lunedì al Venerdì per me soprattutto il reparto farine speciali. Adocchio la farina integrale di avena, la compro, torno a casa e faccio le mie solite ricerche in internet. Cosa ci farò mai? Anche qui adocchio la ricetta casalinga dei biscotti digestive, che prevede appunto l’uso di questa farina, insieme alla normale farina integrale, al burro, al latte e al lievito per dolci possibilmente non vanigliato. Scappo al supermercato per il furto di informazioni circa gli ingredienti velati di mistero riportati sulla confezione degli inimitabili biscotti inglesi ma di origine scozzese. Non c’è il burro, ma oli vegetali. Si accende la lampadina, qualcuno l’avrà cambiata. Perchè non provare allora ad emulsionare l’olio vegetale con il latte (secondo la ricetta della maionese furba, che prevede però il latte di soia, senza uova pronta in 30 secondi) per rendere solido un liquido e sostituire quindi il burro? Del resto lo fa anche Montersino con la frolla all’olio.

Qualche caratteristica in comune con i cugini anglosassoni questi biscotti, nati a Napoli nel Novembre del 2013, ce l’hanno. All’apparenza croccanti, si sciolgono in bocca. Non troppo dolci, anzi con un finale salato. Rustici e friabili quanto basta. L’esperimento della maionese furba al posto del burro? Riuscita.

Per circa 15 biscotti di 7 cm di diametro:

  • 100 g di farina integrale di grano tenero
  • 100 g di farina integrale d’avena (negozi biologici)
  • 50 g di zucchero di canna o semolato
  • 83 g di olio di mais o girasole
  • 4 cucchiai di latte intero a temperatura ambiente
  • un pizzico di sale
  • un cucchiaino abbondante di lievito per dolci (possibilmente non vanigliato)

Preparare l’emulsione di olio e latte: in un boccale alto e stretto versare prima il latte e poi l’olio. Immergere il frullatore ad immersione (in alternativa si può usare un robot da cucina) fino a fargli toccare il fondo. Frullare fino ad ottenere una salsa densa tipo maionese. Basteranno pochi secondi, altrimenti aggiungere un altro goccino d’olio. Far raffreddare in frigo. Nel frattempo setacciare le due farine insieme al lievito, unire lo zucchero, il sale e mescolare per distribuire in modo omogeneo tutti gli ingredienti. Aggiungere l’emulsione di olio e latte e lavorare schiacciando con una forchetta fino ad ottenere delle briciole tipo sabbia bagnata. Formare una palla lavorando l’impasto con le mani il minimo possibile, avvolgere nella pellicola per alimenti e far raffreddare in frigo per mezz’ora. Riprendere l’impasto e stenderlo su un piano liscio e infarinato fino ad ottenere uno spessore di 3-4 mm. L’impasto tenderà a spaccarsi. Ricompattarlo con le mani. Ritagliare i biscotti nella forma preferita e trasferirli delicatamente, con l’aiuto di un coltello, su una teglia ricoperta di carta da forno un pò distanziati tra loro. Infornare in forno preriscaldato a 170° per 10 minuti, o fino a quando i bordi risulteranno dorati. Far raffreddare su una gratella e trasferire in un contenitore ermetico.

Good afternoon.

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Torta sbriciolata di mele. L’eau de parfum “Tort de mel”.

     

Sono assolutamente convinta che quando oggi, all’uscita di scuola, mio figlio abbracciandomi mi ha detto: “Mamma, oggi hai un buon profumo”, non si riferiva al mio deodorante spray. Dovrebbero inventare un eau de parfum “Tort de mel”. I profumi addosso a me durano poco. Questo invece sarebbe l’ideale. Sarà anche che le Mele erano del giardino dei miei genitori.

E’ una torta di qualche anno fa della signora Marina Braito. Ho sentito tante volte il suo nome in giro per forum e le sue torte hanno sempre riscosso un notevole successo. Non so chi sia, ma la ringrazio. Ho scoperto la ricetta solo stamattina e subito l’ho provata. Ha tutto. La croccantezza delle briciole di pasta frolla, l’umidità e il profumo delle mele, la cremosità dell’interno e la superficie caramellata. Velocissima da preparare, richiamerà il quartiere. Ho cambiato minimamente il procedimento per ottenere le briciole di pasta frolla e ridotto di poco lo zucchero, riporto comunque le dosi originali.

Per uno stampo a cerniera di 24 cm di diametro (io ho dimezzato le dosi e ho usato uno stampo da 16 cm):

  • 200 g di farina 00
  • 150 g di zucchero 
  • 100 g di burro
  • 1 cucchiaino di lievito in polvere
  • 2 uova intere
  • 200 g di panna fresca liquida (va bene anche quella da cucina, non bisogna montarla)
  • 1 yogurt bianco
  • 100 g di zucchero di canna
  • 1 kg di mele golden (secondo me va bene anche con un quantitativo inferiore di mele)

Preriscaldare il forno a 170°-180°. In una ciotola lavorare il burro a pezzettini con i 150 g di zucchero (anche 130 g va bene) schiacciando con una forchetta, fino ad assorbimento dello zucchero. Aggiungere in due tre volte la farina setacciata con il lievito, continuando a schiacciare con la forchetta fino ad ottenere delle briciole grossolane. Versare i 3/4 del composto nello stampo (andrebbe imburrato e infarinato, io non l’ho fatto, ma si è staccato facilmente), ricoprire con le fettine sottili di mele e finire con il resto delle briciole. Non premere. La superficie deve risultare irregolare, ma le mele ben coperte. Infornare per 20 minuti nella parte bassa del forno. Nel frattempo mescolare con una frusta la panna, le uova, lo yogurt e lo zucchero di canna, fino ad ottenere un composto omogeneo. Passati i 20 minuti estrarre la torta dal forno e versarvi la cremina fluida ottenuta (potrebbe fuoriuscire minimamente dalla base dello stampo, consiglio di salvaguardare il forno inserendo una teglia alla base dello stesso). Infornare nella parte medio bassa del forno per altri 40 minuti circa. Bisogna permettere alla crema di asciugarsi, se nel frattempo la superficie dovesse scurirsi troppo abbassare la temperatura del forno anche fino a 160°. Sfornare e far raffreddare completamente prima di estrarla delicatamente dallo stampo. Mangiare.

Anche Silvia è caduta nella rete di questa torta e la sua versione con la farina integrale e la cannella è qui.

Ringrazio e saluto la signora Braito. Voi statevi bene.

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Facilità del formaggio primo sale fatto in casa. L’idea prigioniera e la creatività dei batteri.

    primo sale fatto in casa

Come Michelangelo nella prigione del blocco di marmo vedeva intrappolate le sue sculture e gli bastava togliere solo il superfluo che le celava, così io ora in due litri di latte vedo già le mie forme di formaggio. A differenza dell’artista il lavoro del casaro, anch’esso arte, è molto meno complesso di quanto si possa immaginare. In realtà i veri artefici sono i batteri del latte (Lactobacillus e Streptococcus principalmente) che metabolizzando il lattosio producono acido lattico responsabile della coagulazione delle proteine e dei grassi del latte e quindi della cagliata. C’è molta più creatività in un fermento lattico che in molti di noi abbandonati all’immobilità. Se lo lasciassimo agire indisturbato, continuerebbe con calma nel suo mestiere di casaro. Ma l’uomo che ha capito la sua utilità, lo ha addomesticato e affiancato nel suo lavoro. Riscaldando e acidificando semplicemente (con limone o aceto) un pò l’ambiente si favorisce il processo di coagulazione e in due o tre ore si può già ottenere e gustare un prodotto in ottima forma. Le cose però vanno fatte come vanno fatte e così durante una passeggiata ho preso tutto il coraggio che avevo, sono entrata in una farmacia e spavalda ho chiesto il caglio (6 euro, 100g liquido. Un’infinità per una produzione casalinga, considerando che poche gocce coagulano 10 litri di latte). Ce l’avevano. Fine passeggiata. Dopo tre ore (5 minuti di lavoro e 2 ore e 55 di attesa) assaggiavo il mio primo vero formaggio con un’identità: il primo sale. La pulsione latente di raccoglitrice folle di fuscelle ha trovato la sua soddisfazione. Nel fare e nel mangiare. Alcune preparazioni, come il formaggio, sembrano quasi un taboo. Forse una tendenza inconscia a preservarne il fascino, o forse solo ignoranza.

primo sale fatto in casa

  A grosse linee ciò che è avvenuto nella mia cucina è (parte pallosa solo per chi desidera un minimo di approfondimento):

  • Preparazione del latte tramite lattoinnesto: usando un latte vaccino intero fresco ma pastorizzato acquistato al super, si rende necessario un ripopolamento della flora batterica aggiungendo semplicemente qualche cucchiaiata di yogurt bianco intero, ricco di Lactobacilli che convertono il lattosio in acido lattico. Essendo batteri termofili, ossia amanti del caldo, è bene intiepidire il latte fino a circa 38° (immergendo un dito dovremmo avvertire appena un’inizio di riscaldamento).
  • Coagulazione: l’ambiente acido, insieme all’aggiunta di enzimi (chimosina) presenti nel caglio che modificano la caseina, favoriscono la precipitazione (separazione) di quest’ultima e del grasso presenti nel latte. Si formeranno dapprima dei fiocchi gelatinosi e dopo circa mezz’ora una massa budinosa: la cagliata. Il liquido restante è il siero del latte usato principalmente per la realizzazione della ricotta. La coagulazione può essere di due tipi: acida, quando aumentiamo l’acidità del latte aggiungendo per esempio succo di limone o aceto, oppure avviene naturalmente utilizzando latte crudo non pastorizzato; presamica (presame è l’altro nome del caglio) quando aggiungiamo il caglio. Nel primo caso la cagliata risulterà poco compatta, nel secondo è più tenace ed elastica, più adatta alla produzione di formaggi a pasta semidura (come il primo sale) e dura.
  • Rottura della cagliata: spezzettamento della massa cagliata in pezzi più o meno piccoli per facilitare lo spurgo del siero. Più la frammentazione è fitta, più siero si elimina più si ottiene un formaggio compatto adatto alla stagionatura. Per i formaggi freschi e a pasta molle, come lo stracchino per esempio, è necessario rompere la cagliata in pezzi grossi. Essendo formaggi più umidi il periodo di conservazione si limita a pochi giorni.
  • Estrazione, pressatura e messa in forma: la cagliata viene estratta e spurgata ulteriormente tramite pressatura. Si riempiono le fuscelle, per dare la forma voluta e facilitare ulteriormente la fuoriuscita del siero.
  • Leggera salatura e assaggio: la salatura può avvenire cospargendo il sale sulla superficie o in salamoia. Io preferisco metterne anche un pò direttamente nel latte.

Latte, fermenti, enzimi, temperature e modalità di lavorazione sono i parametri principali per ottenere il formaggio. Ogni loro variazione comporta l’ottenimento di formaggi e latticini diversi. Si potrebbe continuare poi con la stagionatura o maturazione che può durare da pochi giorni a più di due anni. Io mi sono fermata alla leggera salatura. La rete è piena di ricette del formaggio fatto in casa. Le ho semplicemente raccolte, filtrate e riassunte per fare il punto della situazione e per essere più consapevole dei processi di caseificazione. La ricetta scritta è quella che mi ha portato sempre verso un risultato sicuro.

Per circa 500g di primo sale (io ho ottenuto 3 fuscelle da 100g l’una e una più grande da 200) :

  • 2 l di latte intero fresco pastorizzato o crudo (acquistabile presso distributori certificati, io ho usato quello pastorizzato per una più facile reperibilità e per un eccesso di cautela forse infondata. L’argomento sicurezza andrebbe approfondito)
  • 2 cucchiai di yogurt bianco intero (non dolce e cremoso) solo se si utilizza il latte pastorizzato
  • 4-5 gocce di caglio liquido (dipende dal titolo del caglio, dove per titolo si intende il rapporto tra la sua quantità e il totale dei litri di latte che riesce a coagulare in 40 minuti a 35°C. Il mio ha un titolo di 1:10000, ossia ogni ml riesce a coagulare 10 litri di latte. Il caglio è acquistabile nelle farmacie o caseifici)
  • 10g di sale
  • contagocce
  • termometro per alimenti (opzionale, in questa preparazione basterà un dito. Della mano, ma potrebbe andare anche quello del piede a pensarci bene)
  • mestolo forato
  • fuscelle 

In una pentola, preferibilmente di acciaio, di rame o di coccio, stemperare lo yogurt nel latte (solo nel caso di latte pastorizzato) e intiepidire leggermente il tutto fino ad una temperatura di 37°-38°. Fare la prova del dito: quando si comincia ad avvertire un leggerissimo riscaldamento spegnere il fuoco. In questo modo si permette lo sviluppo e la riproduzione della flora batterica nel latte.  Aggiungere il caglio (si conserva in frigo) e il sale. Mescolare per pochi secondi. Coprire la pentola con un coperchio e avvolgerla in un paio di canovacci per permettere il mantenimento di una temperatura costante. Dopo 30-35 minuti di riposo la cagliata dovrebbe esser pronta e presentarsi come una massa budinosa. Uno stecchino infilato nel centro deve tenersi dritto. A questo punto bisogna rompere la cagliata in tanti quadratini (per favorire lo spurgo del siero), con l’aiuto di un coltello che arrivi fino al fondo della pentola. Questa operazione va ripetuta 3 volte, ad intervalli di 15 minuti, ottenendo pezzi via via più piccoli fino ad arrivare alla dimensione di una nocciola (qui subentra un pò l’esperienza e l’abilità del casaro, più piccoli sono i pezzi e più il formaggio risulterà compatto e asciutto, mentre il primo sale deve rimanere umido). Raccogliere delicatamente la cagliata con un mestolo forato e versarla nelle fuscelle. Pressarla, sempre delicatamente con il dorso di un cucchiaio o con la base di un’altra fuscella e porla su una gratella per permettere lo sgocciolamento. Dopo una decina di minuti bisogna effettuare un primo ribaltamento (assicurarsi che si sia solidificata un pò): le tecniche sono varie, io ho usato delle fuscelle piccoline quindi ho ribaltato la cagliata nel palmo della mano e l’ho reinserita capovolta nella fuscella. Bisogna prenderci un pò la mano con questa operazione che serve ad avere una forma migliore e permette la giusta asciugatura. Ripetere questa operazione altre tre volte sempre a distanza di 10-15 minuti. E’ buona già così, ma io preferisco comunque farla asciugare e riposare qualche ora in più in frigorifero (l’ideale sarebbe mangiarla dopo 24 ore). Al momento di mettere la cagliata nelle fuscelle la si può aromatizzare con pepe, peperoncino, frutta secca, rucola, olive, erba cipollina o altre erbe aromatiche che però non anneriscano (il basilico per esempio). Si conserva in frigorifero, chiusa in un contenitore, per 4-5 giorni.

Qualcuno assaggiandola potrà dirvi che non sa di niente. Prima frenate la tentazione di dargli una testata nei denti, poi spiegategli che il primo sale è un formaggio fresco e relativamente leggero che sa di latte e quindi assume le caratteristiche del latte con cui è fatto. Serviteglielo in insalata, o condito semplicemente con sale e pepe e poi mandatelo a mungere le mucche alpine. Facendo due conti, considerando che il costo del caglio si ammortizza nel tempo e omettendo il costo dell’attrezzatura che avevo già, ho risparmiato autoproducendomi il formaggio circa un 30%. E mi sono divertita.

E non fate i caglioni. Provateci. Anche in questo caso è più facile a farsi che a dirsi.

Se avete poi bisogno di un cake topper per la vostra torta, vi invito a visitare il mio negozio on line “Lady Topper“. Troverete una Ida Briciole in cucina in versione zuccherosa!

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Fiori di zucca ripieni di Gruyère in tempura. Street food per la Swiss Cheese Parade.

Fiori di zucca ripieni di Gruyère in tempuraSe vi dico donna di strada, voi a cosa pensate? Se il cibo è sempre stato metafora della società e il cibo di strada ora è di moda, voi a cosa pensate? Che stiamo andando a finire tutti per strada, no? Che poi è sempre stato di moda. E’ l’attività più vecchia del mondo, da quando Eva mangiava mele nel giardino. Potrebbe sembrare che ogni tanto qualcuno decide di puntare il riflettore su un fenomeno, lancia il tema e tutti si divertono a svolgere il compitino. Il cibo di strada di “Tonino il re del panino è sempre un amico”, diventa street food gourmet e addio vecchio camioncino, arriva l’ape car glitterato. Ma anche questa ormai è una vecchia storia. La FAO già nel 1997 stimava che circa 2,5 miliardi di persone basano la loro alimentazione giornaliera sul cibo di strada. Numero sicuramente cresciuto in questi anni. La sua praticità, ma soprattutto economicità viene incontro non solo alle esigenze di chi ne usufruisce, ma anche di chi decide di aprire un’attività di venditore ambulante. Nei paesi in via di sviluppo rappresenta la fonte di reddito per milioni di persone con competenze o istruzione limitate. In Italia potrebbe esserlo anche per quelli con istruzione illimitata se le leggi sulle licenze fossero meno restrittive. Quindi ben venga l’attenzione posta su questo tipo di alimentazione se porta a miglioramenti igienico-nutrizionali. Aldilà di tutto ciò il cibo da strada ci piace proprio.

Lo street food è anche il tema del contest organizzato dai Formaggi Svizzeri in collaborazione con il blog Peperoni e patate. Ci hanno tentato con due antichissimi formaggi: la Gruyère DOP, formaggio svizzero a pasta semi dura che, contrariamente a quanto ci ha insegnato Topo Gigio non ha i buchi, non somiglia per niente all’Emmentaler, se non per la consistenza e solo un lieve sentore, e lo Sbrinz DOP. Quest’ultimo il più antico dei formaggi svizzeri e il più stagionato, molto simile al nostro Parmigiano, da mangiare a scaglie per apprezzarne i granellini più duri e scricchiolanti. Prodotti pregiati entrambi, ma la Gruyère per la sua proprietà di fondere senza liquefarsi è finita in direttissima nel cuore dei fiori di zucca. Di solito a Napoli i sciurilli (fiorilli) vengono fritti avvolti dalla pasta cresciuta, ossia lievitata. Ma non sempre. Internazionalità per internazionalità del piatto ho preferito farne una tempura, anche perchè spesso i miei accaniti migliaia di fans mi chiedono la ricetta di una pastella leggera e croccante che non invada troppo la verdura. La tecnica della tempura, fatta con acqua ghiacciata, grazie allo shock termico crea una crosticina croccante e sottile.

Fiori di zucca ripieni di Gruyère in tempura.

Per circa 20 fiori:

  • 150-200 g di Gruyère grattugiato grossolanamente
  • 70 g di farina 00
  • 30 g di farina di riso o amido di mais
  • 200 ml di acqua frizzante ghiacciata
  • cubetti di ghiaccio
  • olio per friggere (arachidi o olio di oliva) q.b.
  • sale e pepe

Mondare i fiori togliendo le foglioline laterali e accorciando il gambo. Lavarli in acqua e asciugarli con delicatezza. Aprirli cercando di non rovinarli troppo ed eliminare l’amaro pistillo. Farcirli con il formaggio e chiuderli a caramella. Mettere il ghiaccio in una ciotola e posizionare su di esso una ciotola più piccola per tenere fresca la pastella. Setacciare le due farine nella ciotola più piccola, unire un pò di pepe e versare l’acqua ghiacciata, mescolando per amalgamare ma non troppo. Qualche grumetto è caratteristico. Riscaldare l’olio in una padella alta e stretta preferibilmente, la verdura ne deve essere completamente sommersa. Per vedere se l’olio è a temperatura, immergere un goccio di pastella. Se viene subito a galla attorniata dalle bollicine è pronto. Immergere la verdura prima nella pastella, tenendola sempre chiusa per evitare che il ripieno fuoriesca, un pezzo alla volta (passandola sul bordo della ciotola per eliminare l’eccesso di pastella) e sempre un pezzo alla volta friggerle a fuoco moderato fino a quando diventano dorate. Basteranno pochi istanti. Asciugarle su un pezzo di carta assorbente, salare e servire subito. Croccantissime.

Con questa ricetta partecipo al contest “Swiss cheese parade”

swiss cheese parade

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Hamburger di vitello, pancetta e nocciole con fonduta di provolone di bufala. Fai da te.

Ma ahimè sei nata tu! Una maga disse a mia madre incinta di me che sarei stata un maschio. Sicuramente. Quando nacqui brutta e con il naso schiacciato (brutta in culla ma bella in piazza) mio padre chiamò i genitori che esclamarono: “E’ nato Vincenzo?”. “No. E’nata Ida”. Silenzio. Non me l’hanno mai fatto pesare e nemmeno io a loro. Trenini, costruzioni, bicicletta azzurra, jeans, pallone. Per costruire i tetti con i Lego usavo la livella. I miei migliori amici erano i peggiori maschietti del rione. Prove di abilità e patti di sangue. Eppure ho sempre conservato una certa femminilità che esce allo scoperto a periodi. Poi mi sono sposata. Mio padre come regalo personale di nozze mi ha impacchettato un trapano a percussione. Mio marito la scatola con le punte per ogni tipo di materiale. Smonto, aggiusto e monto lampadari. Ho fatto la mappatura delle tubature del bagno. Cambio interruttori. Quando capita per sbaglio qualche idraulico a casa mia, la mia cassetta degli attrezzi è nettamente più fornita. Chiacchieriamo in linguaggio tecnico, gli prevedo i possibili guasti e lui, dapprima perplesso, se ne va con un: “Alla fine aveva ragione la signora!”. Uomini. Nei periodi in cui a casa è tutto funzionante e tutto perfettamente montato, a volte mi viene la nostalgia del fai da te. A volte la smania è talmente tanta che ogni scusa è buona per testare un martello nuovo.

Tre cose mi hanno spinto a scrivere questo post. Primo la voglia di piantare un chiodo. Secondo il recente acquisto del libro “Hamburger” dello chef Alberto Citterio, che si è divertito a regalarci varie versioni del “piatto più amato al mondo”, come lui stesso lo definisce. Hamburger di carne, di pesce e vegetariani, fantasiosi e a volte bizzarri. Anche se l’origine del panino non è chiara, lui spiega che probabilmente risale alla fine dell’Ottocento quando gli emigranti europei raggiungevano il nuovo Mondo sulle linee navali della Hamburg line. Nelle polverose mense destinate ai nostri compaesani veniva servito, per praticità, una strana polpetta cotta alla griglia e racchiusa in due fette di pane. Sbarcano gli emigranti e sbarcano gli economici hamburger preparati con tagli di seconda scelta che una volta tritati si accontentavano di una cottura più breve. Il panino più controverso del pianeta è, molto probabilmente, un made in Europe. Per appianare le controversie anche qui ci viene in soccorso il fai-da-te. Citterio consiglia di utilizzare parti pregiate del bovino e mediamente grasse, di farle macinare al momento e consumarle fresche. Questa ricetta non è tratta dal libro, è un fai-da-me ispirato alle mille combinazioni possibili che lo chef suggerisce. Caro Citterio io mi sono fatta pure il panino, anzi il burger bun!

Per otto panini:

  • 300 g di farina 00
  • 150 g di farina Manitoba
  • 90 ml di acqua
  • 90 ml di latte  (quantità di liquidi indicative, dipende dall’assorbenza delle farine)
  • 30 g di burro
  • 50 g di zucchero (io metto 30 g di zucchero e un cucchiaino di malto d’orzo)
  • 1 uovo intero
  • 1 cucchiaino di lievito di birra disidratato
  • 1 cucchiaino di sale
  • 1 tuorlo e un cucchiaio di latte per spennellare
  • semi di sesamo

(tutti gli ingredienti a temperatura ambiente)

Mettere in un ciotola le farine setacciate insieme al lievito, lo zucchero (e il malto), l’uovo leggermente sbattuto, il sale e cominciare ad impastare aggiungendo l’acqua e il latte a filo fino ad ottenere un impasto liscio e morbido, leggermente appiccicoso. Aggiungere il burro a cubetti poco alla volta per permetterne il corretto assorbimento. Continuare ad impastare fino a quando l’impasto si stacca dalle pareti della ciotola in un sol pezzo. Coprire la ciotola con un canovaccio umido o con la pellicola trasparente e far lievitare fino al raddoppio (circa tre-quattro ore). Rovesciare l’impasto su un piano leggermente infarinato e sgonfiarlo delicatamente reimpastandolo brevemente. Dividerlo in due, poi in quattro e in fine in otto pezzi. Per avere il panino della foto, ossia con il segno del taglio, dividere ulteriormente ogni pallina in due e formare, delicatamente con i polpastrelli, due dischi di circa 8 cm di diametro da sovrapporre. Metterli in una teglia ricoperta da carta da forno ben distanziati e far lievitare ulteriormente , coperti,  fino al raddoppio (circa un’ora). Nel frattempo preriscaldare il forno a 180° (se ventilato 170°). Una volta lievitati spennelarli con il tuorlo sbattuto con il latte e ricoprirli di semi di sesamo, come da tradizione. Infornare nella parte più bassa del forno e far cuocere per circa 20 minuti, fino a quando saranno belli gonfi e dorati e si sentirà il profumino. Sfornare e farli raffreddare su una gratella. Appena raffreddati danno il meglio di sè, altrimenti si possono conservare (freddi)  in un sacchetto per alimenti in frigo per pochi giorni o congelare. Si scongelano rapidamente a temperatura ambiente. Poi li piastreremo.

Per 4 Hamburger:

  • 400 g di carne di vitello macinata fresca
  • 80 g di pancetta coppata
  • un pizzichino di sale e pepe
  • 30 g di nocciole tostate e pelate di buona qualità (io quelle di Giffoni)
  • 200 g di provolone dolce (io di bufala)
  • 150 g di panna liquida
  • pomodoro e lattuga

Tritare la pancetta e le nocciole grossolanamente. Amalgamarle con la carne e condire con un pizzico  di sale e il pepe. Formare gli hamburger, magari aiutandosi con uno stampo rotondo per biscotti o con un coppapasta. Lasciar riposare in frigo per 15 minuti almeno. Preparare la fonduta portando ad ebollizione la panna e aggiungendo il provolone tagliato a cubetti piccoli. Far sciogliere a fiamma bassa, togliere dal fuoco e lasciare a temperatura ambiente mescolando di tanto in tanto. Se viene troppo denso aggiungere un goccio di latte. Far riscaldare una piastra o una padella antiaderente. Una volta calda ungerla leggermente con olio extra vergine di oliva e far cuocere a fuoco medio alto gli hamburger per 4 minuti a lato per ottenere una cottura media al sangue. Girarli una volta sola, se ben cotti si staccheranno senza problemi. Riscaldare sulla piastra anche i panini tagliati a metà e comporli posizionando gli hamburger sulla loro metà inferiore, cosicchè i panini possano assorbirne i succhi. Spalmare la fonduta sugli hamburger e ricoprire con il pomodoro e la lattuga.

Terzo: con questa ricetta partecipo al contest dell’avvocato Vaty:

Contest "Contaminazioni"

Vaty, bel contest e buon lavoro!

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Torta pane, cioccolato, pugni e calci.

Torta pane e cioccolato

Pugni e calci, si. Il pasticcere modello di oggi è un giovanissimo campione (con le medaglie d’oro al collo, quelle vere) di Tae-Kwon-Do (pr. tecondò), arte marziale nata negli anni ’50-’60 in Corea. Cortesia, integrità, perseveranza, autocontrollo e spirito indomito i principi di quest’arte di autodifesa. Stiamo attenti a chi decidiamo di aggredire senza un’adeguata preparazione. Loro sono dappertutto. Gentilmente al momento giusto, se provocati, un calcio al volo (Tae) nei denti non lo negano a nessuno. Non ci sono limiti di età per praticare questa disciplina. Fa bene al corpo e allo spirito. Male agli aggressori. Ci faccio un pensierino.

torta pane e cioccolato

Ne prenderei una fetta. Meglio non farlo arrabbiare…

Torta pane e cioccolato

 Anche un’altra, và. Tanto la prova costume anti-tricheco style mi pare sia passata.

E’una torta da credenza, semplice e “senza” farina. Nel senso che si prepara con il pane raffermo grattugiato. Tritare il pane duro può essere un’impresa. Per questo io consiglio di usare i panini, più facilmente grattugiabili con un mixer o in alternativa le fette biscottate, che tra l’altro sono anche un pò più dolci e non guasta in questo caso. Gli amaretti potrebbero sembrare in dose abbondante, ma non li ho trovati molto invasivi all’assaggio. La torta ha sfamato 5 cuginetti di varie età festosi e saltellanti ed è finita purtroppo subito.

Per una teglia di 24 cm di diametro:

  • 200g di pane raffermo (o fette biscottate)
  • 200g di amaretti
  • 200g di cioccolato fondente extra
  • 2 uova
  • 180g di zucchero
  • 250g di panna fresca
  • 1 bustina di lievito per dolci
  • zucchero a velo quanto basta

Accendere il forno a 170°-180°. Grattugiare in un mixer il pane e gli amaretti molto finemente. Fondere il cioccolato a bagnomaria, farlo raffreddare e mischiarlo alla panna. Lavorare le uova con lo zucchero fino ad ottenere una crema chiara e spumosa. Aggiungere con delicatezza, lavorando con un cucchiaio di legno, il pane e gli amaretti setacciati insieme al lievito (utilizzare anche le briciole più grandi che rimangono nel setaccio), la panna e il cioccolato, alternandoli. Imburrare e cospargere di pangrattato la teglia, riempirla con il composto ben amalgamato e infornare per 40 minuti circa. Fare la prova stecchino che dovrà fuoriuscire leggermente umido. Far raffreddare, sformare e cospargere di zucchero a velo.

(Ricetta tratta dall’affidabile libro di Maurizio Di Mario “Torte per tutte le occasioni”).

Un ringraziamento speciale al mio modello e ad altri due validi supporter. La prossima volta toccherà a voi!

Qui la foto con ricetta da scaricare e conservare.

torta pane e cioccolato  Kyong-rye! Disciplinati saluti e ben ritrovati!

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Roast beef alla birra e geni dell’amarezza.

Ingoiare un boccone amaro allunga la vita. Se poi i bocconi diventano troppi è la vita di chi ce li propone ad accorciarsi. Di molto. Pare infatti che ci sia un collegamento tra i geni che permettono di percepire il gusto amaro (sono 25 e ad ognuno è associato un cibo o una sostanza) e la longevità. Qualche anno fa è stato condotto uno studio genetico su 1000 centenari ed è emerso che in loro uno di questi geni è particolarmente attivo. Lo stesso che regola l’assorbimento del colesterolo. Questo perché gli stessi geni dell’amaro sono anche i responsabili del corretto funzionamento di altri organi e di meccanismi complessi come il senso di sazietà e la proliferazione cellulare. Stimolarli assumendo sostanze amare, come nicotina, bevande alcoliche, caffè e cioccolato (giusto qualche personale moderato esempio da non seguire) potrebbe allontanare le rughe. Se poi si preferisce un’insalatina di rucola, magari a inizio pasto per accelerare la comparsa del senso di sazietà…ognuno è libero di interpretare i risultati dello studio a suo piacimento. (Fonte)

Roast beef alla birra

C’è di più. L’amaro viene percepito in modo diverso da persone diverse. Non esiste un amaro assoluto. Sicuramente io farò parte della categoria dei non tasters, al limite dei medium tasters, ossia sarò tra quelli che sperimentano il senso dell’amaro con minore intensità rispetto alla media. Ho trovato la nota amara data dalla birra, dalla sua salsa in particolare, deliziosa.

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Il roast beef, tipico arrosto inglese della domenica rosolato all’esterno e al sangue all’interno, l’ho sempre preparato al forno accompagnato da patate o verdure. La sua cottura in padella, mi aveva sempre lasciato un pò perplessa. Dovendolo dare anche ai bambini, non volevo ottenere una cottura al sangue vivo e pensavo di non riuscirci cuocendolo sui fornelli. Invece dopo 20 minuti di rosolatura in un tegame dal fondo spesso ho ottenuto il risultato sperato. Da piatto invernale nel mio immaginario si è trasformato in un piatto per tutte le stagioni, non dovendo accendere il forno. Il pezzo ideale per il roastbeef  “all’italiana”  è il lombo disossato (controfiletto) di bovino, il più saporito e della giusta morbidezza.

  • Controfiletto di bovino (o un altro taglio consigliato dal macellaio, l’importante è che sia mediamente magro all’interno e avvolto da uno straterello di grasso, il sapore è tutto lì, almeno 800 g. )
  • un bicchiere di birra (a seconda del tipo di birra scelta si avrà una salsa più o meno amara, le lager commerciali sono di solito amare, le ale sono tra le più dolci)
  • olio
  • rosmarino
  • un fiocchetto di burro 
  • sale, pepe

Lasciare il controfiletto a temperatura ambiente per 1-2 ore, magari massaggiato con una miscela di olio e rosmarino tritato. Il pezzo non va bucato assolutamente, per non far fuoriuscire i liquidi all’interno. Scaldare in un tegame dal fondo spesso un filo di olio extravergine di oliva, senza farlo bruciare. Far rosolare prima le estremità della carne, in seguito i laterali, a fuoco medio rigirando delicatamente con dei mestoli di legno. Bastano 5 minuti per lato( di solito si contano 20 minuti di cottura totale per ogni chilo di carne, per una cottura al sangue). Attenzione agli schizzi! E’normale. Una volta ben rosolato, salare e pepare la superficie. Volendo si può prolungare la cottura di altri 5 minuti, non di più, aggiungendo sul fondo una spruzzata di birra e coprendo il tegame.  

Estrarre la carne dal tegame e riporla coperta da un foglio di allumino in un piatto o su una gratella con un piatto al di sotto per raccogliere il sughetto che fuoriuscirà. Questo riposo di minimo un quarto d’ora servirà ad uniformare la temperatura e distendere le fibre della carne.

Nel frattempo raschiare il fondo di cottura con una spatola di legno, aggiungere la birra e il sughetto raccolto nel piatto posto al di sotto della carne e far ridurre a fuoco medio della metà, dopo aver filtrato il tutto. Aggiungere un fiocchetto di burro. Se la salsa non si addensa, si può aggiungere un cucchiaino di amido di mais sciolto in un goccino d’acqua. La quantità di salsa che si ricaverà non è abbondante, ma basterà. 

Affettare la quantità desiderata il più sottilmente possibile e servire con la salsa alla birra. Il resto dell’arrosto, intero per non farlo asciugare troppo, si conserva in frigo per due-tre giorni in un contenitore ermetico. E’ buono anche freddo.

Lunga vita alla Regina!

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Mesdames et Monsù…il Babà da passeggio fatto a mano.

L’anima di Napoli si è formata nei secoli grazie alla schiera di personaggi illustri che l’hanno resa celebre mondialmente. Geni della cultura che a loro volta si sono nutriti della vitalità e inventiva del popolo napoletano. Napoli è un enorme teatro dove gli attori si muovono senza regista, inventando ogni giorno la loro parte. Il pubblico è sempre invitato a partecipare alla scena e bisogna essere pronti a immedesimarsi nei personaggi. Non ci sono regole scritte, bisogna intuirle al volo. Godersi la vita il più possibile è la prima. Il popolo napoletano è un popolo avido, non di denaro ma di Sole, di musica e di buon cibo. Libero Bovio, autore di Reginella, diceva che “a Napoli tutto è azzurro, anche la malinconia”.

 Fernand Braudel, considerato uno dei massimi storici del XX secolo, sosteneva:

E Napoli ha continuato a dare molto all’Italia, all’Europa e al mondo: essa esporta a centinaia i suoi scienziati, i suoi intellettuali, i suoi ricercatori, i suoi artisti, i suoi cineasti … Con generosità, certo. Ma anche per necessità. Mentre non riceve nulla, o pochissimo, da fuori. L’Italia, secondo me, ha perso molto a non saper utilizzare, per indifferenza, ma anche per paura, le formidabili potenzialità di questa città decisamente troppo diversa: europea prima che italiana, essa ha sempre preferito il dialogo diretto con Madrid o Parigi, Londra o Vienna, sue omologhe, snobbando Firenze o Milano o Roma.”

Nella seconda metà del ‘700, infatti, nelle cucine nobili napoletane e nei salotti si cucinava e parlava francese.  A introdurre i piatti della cucina d’oltralpe fu la colta e raffinata regina Maria Carolina d’Asburgo, moglie di Ferdinando IV di Napoli e sorella della più famosa regina Maria Antonietta. La cucina reale era affidata ai monsieur, cuochi francesi, e questa moda si diffuse ben presto anche negli ambienti aristocratici. Avere un monsieur, anche se spesso non era esattamente francese, divenne sinonimo di prestigio. L’identità del popolo napoletano fece sentire comunque la sua voce e oltre a mutare il nome dei cuochi in monsù, trasformò molti dei piatti francesi importati, in piatti alla napoletana. Cucina fusion, insomma. Il sartù, i crocchè, il gattò e il babà sono solo alcuni esempi dei piatti d’ispirazione francese divenuti patrimonio gastronomico della tradizione napoletana.

Il babà in realtà, pare non sia stato inventato dai francesi. Una delle ipotesi più accreditate sostiene che derivi da un’idea del re polacco Stanislao Leszczinski. Il re detronizzato era il suocero di Luigi XV re di Francia, che lo nominò duca di Lorena. Qui gli veniva servito spesso un dolce a pasta lievitata, un misto tra un panettone e una brioche, il kugelhopf (babka in polacco), che forse lui trovava troppo asciutto così lo inzuppò in un liquore. Il dolce spugnoso reagì talmente bene che ben presto, grazie a sua figlia Maria, sposa appunto di Luigi XV, arrivò nelle pasticcerie parigine e da qui a Napoli grazie ai monsù. A Parigi, grazie al gastronomo Brillat-Savarin, il dolce assume la forma del babà Savarin, la ciambella di pasta babà e macedonia di frutta che prevede nell’impasto un pò di latte. A Napoli ne migliorano la lavorazione, lo ripuliscono da alcuni ingredienti quali zafferano e uvetta e lo consacrano dolce partenopeo per eccellenza. E’ un dolce dai semplici ingredienti, spugnoso quanto basta per trattenere la fragrante bagna senza sbriciolarsi e al tempo stesso scioglievole in bocca senza reimpastarsi. E’ leggero, prevede un’esigua quantità di farina rispetto al quantitativo di uova impiegate. Il babà a forma di fungo è un pratico dolce da passeggio, si mangia con le mani e se ben fatto non ha bisogno di creme e frutta che distraggono il palato. Tuttavia confesso di amarlo anche accompagnato dalla crema pasticcera, ma che comunque non deve considerarsi un ingrediente di questa divinità dolciaria.

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Non avevo osato finora accostarmi a questa preparazione, per timore reverenziale. Il vero babà si mangia nelle pasticcerie di Napoli. Ma la sfida mi arriva proprio dal Nord, dalla mia solare amica di tastiera Tatiana. Ogni tanto, spesso ho bisogno di una scossa e lei lo ha intuito. Non ho una ricetta di famiglia, sono napoletana d’adozione. La splendida signora mi ha costretto dunque a far colazione, con occhio critico, con babà di varie pasticcerie di Napoli e poi con i miei vari tentativi. La mia intenzione è stata quella di trovare una ricetta facilmente riproducibile con ingredienti acquistabili da tutti. La scelta della farina adatta mi ha dato più filo da torcere. In pasticceria mi avevano offerto la loro, ma così il gioco non era valido. C’è chi consiglia di usare la manitoba, ma in commercio ci sono vari tipi di manitoba più o meno forti e il risultato è stato una bellissima pasta brioche ben incordata, non adatta però alla bagna. Avrò sbagliato probabilmente qualcosa io. Mi sono affidata allora istintivamente a questa modernissima video-blogger, modificando leggermente il quantitativo degli ingredienti e dando per scontato che la farina indicata è una comunissima “00”. Ho seguito alla lettera il suo procedimento della sbattitura dell’impasto, come del resto indicato anche nel libro “Dolcezze-la grande cucina campana” di Rossella Guarracino (Malvarosa edizioni). La struttura c’è, si bagna, si strizza e ritorna della forma iniziale, il sapore c’è e soprattutto uno tira l’altro.

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Per circa 12 formine da babà ( 6 cm di altezza e 4 cm di diametro di base) o uno stampo a ciambella scanalato da 24 cm. Le dimensioni sono importanti per una corretta lievitazione:

Per l’impasto:

  • 200 g di farina 00
  • 50 g di farina manitoba (ho voluto rinforzare un pò la farina, ma va bene anche tutta farina 00, quindi 250 g in totale)
  • 3 uova (60 g l’una pesate con il guscio)
  • 75 g di burro a temperatura ambiente
  • 50 g di zucchero
  • 2 cucchiaini di lievito disidratato (oppure 10 g di lievito di birra fresco)
  • mezzo cucchiaino di sale

Per la bagna:

  • 300 ml di acqua (si può aromatizzare aggiungendo delle bucce di limone da lasciare in infusione qualche ora prima di preparare lo sciroppo)
  • 150 g di zucchero
  • un bicchierino di rum (il rum di solito, se gradito, si aggiunge in seguito al momento di servire, basta spruzzare i babà e lasciare riposare qualche minuto)

Prima lievitazione:

Preparare un lievitino prelevando una parte di farina setacciata, circa 50 g, aggiungendo qualche cucchiaio di acqua, un cucchiaino di zucchero e il lievito. Impastare fino ad ottenere un panetto morbido e liscio. Far lievitare coperto fino al raddoppio. Circa mezz’ora, ma dipende dalla temperatura ambiente.

Seconda lievitazione:

Riunire in una ciotola tutti gli ingredienti dell’impasto, aggiungere il lievitino e impastare prima con la punta delle dita fino ad amalgamare tutti gli ingredienti (l’impasto sarà molto fluido, ma lavorabile agevolmente a mano considerando l’esiguità degli ingredienti. Per una dose maggiore o più olio di gomito o un’impastatrice). Continuare la lavorazione raccogliendo con una mano l’impasto e sbattendolo energicamente sulle pareti della ciotola, come se si volesse lanciare una pallina contro un muro. Continuare fino a quando l’impasto accennerà a staccarsi dalle pareti e formerà delle bolle. Occorreranno 15-20 minuti. Risulterà comunque abbastanza liquido, ma va bene così. Coprire e far lievitare in luogo riparato fino a quando avrà triplicato o quadruplicato di volume. E’ un impasto che lievita moltissimo. In questi giorni con una temperatura ambiente di 25°, sono bastate circa 3 ore.

Terza e ultima lievitazione:

Ribaltare l’impasto su un piano di lavoro liscio (non di legno, ma di marmo, di acciaio o di vetro) leggermente infarinato, rimpastatelo per breve tempo con l’aiuto di una spatola, prendendo i lembi e portandoli verso il centro. Riempite a metà le formine ben imburrate e NON infarinate, prelevando l’impasto con le mani anch’esse ben imburrate. Non è importante riuscire a formare delle palline perfette tramite mozzatura. Lievitando assumeranno la classica forma a fungo. Se si decide di usare uno stampo per ciambella, riempirlo semplicemente con l’impasto, cercando di livellarlo il più possibile e far lievitare fin quasi al bordo.

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Coprire con la pellicola per alimenti e lasciar lievitare fino a quando l’impasto fuoriesce un pò dai bordi degli stampini. In cottura continuerà a lievitare. Consiglio di eliminare la pellicola prima che la pasta raggiunga il bordo, perchè potrebbe incollarsi.

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Cuocere in forno preriscaldato(statico o ventilato che sia), nella parte più bassa, a 170° fino a quando saranno ben dorati, non solo la sommità ma anche i laterali. Estrarne uno per verificare la cottura uniforme. Occorrerà circa mezz’ora. Se la cupola dovesse colorirsi troppo velocemente abbassare un pò la temperatura del forno. Sfornare e dopo qualche minuto togliere dagli stampini e far raffreddare e seccare su una gratella anche per una notte intera. Dovrebbero staccarsi facilmente dagli stampini, altrimenti aiutarsi con la lama di un coltello. Nel frattempo preparare lo sciroppo, facendo bollire l’acqua (eliminando le bucce di limone) con lo zucchero per qualche minuto. Riempire una ciotola capiente con lo sciroppo e immergervi i babà, rigirandoli spesso per farli impregnare per bene. Dovrebbero assorbire tutto lo sciroppo senza problemi. Strizzare delicatamente e porli a testa in giù su una gratella. L’ideale sarebbe gustarli il giorno dopo, conservandoli in frigo, dando tempo allo sciroppo di penetrare uniformemente. Al momento di servire aggiungere una spruzzata di rum di buona qualità se gradito.

Statv buon!
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In evidenza

Allentiamo le tensioni. Divagazioni, fisica e poesia.

Il linguaggio scientifico e quello poetico sono diversi ma differiscono entrambi dal linguaggio comune. Entrambi vanno appresi per capire il mondo che ci circonda, chi lo abita e i sentimenti che abitano in chi lo abita. Si pongono entrambi su un altro livello e ci svelano fenomeni e sensazioni altrimenti criptati. La Luna ci apparirà diversa dopo aver letto una poesia. A cambiare non sarà lei ma il nostro cuore che si affaccia sull’Universo, attraverso gli occhi, in modo più consapevole. Le forze superficiali che tengono insieme le molecole di acqua e sapone permettono loro di trattenere un sospiro. La bolla di sapone è uno dei primi esperimenti scientifici e poetici di un bambino. Incuriosisce, stupisce e diverte.

La Fisica spiega che le forze che accarezzano la superficie di un liquido, chiamate tensioni superficiali, sono le responsabili della formazione di un velo elastico capace di trattenere e comprimere i liquidi (si formano così le gocce) o aria al loro interno (nascono così le bolle, la forma sferica perfetta). Le tensioni superficiali dell’acqua sono molto elevate, tanto da non permettere l’esistenza delle bolle d’acqua, perché rompono subito il velo nel suo punto più debole. Per abbassare il valore delle tensioni, permettendo così la formazione di bolle più durature, occorre miscelare l’acqua con il sapone in giusta dose.

La Poesia vede così le bolle di sapone:

“So bella, sì, ma duro troppo poco.

La mia vita, che nasce per un gioco

come la maggior parte delle cose,

sta chiusa in una goccia… Tutto quanto

finisce in una lagrima de pianto.”

(Trilussa)

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Il saper domare le tensioni superficiali dell’acqua spiega anche la brillantezza dei miei bicchieri, lavati e asciugati in lavastoviglie. La mia aiutante nelle faccende domestiche, all’occorrenza, tramite una spia rossa mi avvisa che è finito il brillantante. Non si da pace fino a quando non soddisfo la sua richiesta. I suoi progettisti l’hanno concepita tenendo ben presente che l’utilizzo di un additivo come il brillantante ne garantisce l’efficienza. Una piccolissima dose, abbassando la tensione superficiale dell’acqua, evita la formazione di gocce grossolane, garantendo un’asciugatura perfetta, senza aloni e rapida. Ciò si traduce anche in risparmio economico. Pril brillantante 3x Azione Brillante, nel suo abbondante formato da mezzo litro, assicura un triplice vantaggio: stoviglie brillanti (anche sui bicchieri più delicati), lavastoviglie scintillante (anche sulle pareti interne della lavastoviglie) e filtro splendente per garantire un miglior funzionamento senza aloni e residui anche nelle parti più nascoste. La garanzia di una perfetta asciugatura delle parti più interne, inoltre, scaccia il rischio della formazione del dannoso calcare.

Spero de non averve svaporato er cervello!

In evidenza

Ragione, percezione ed ecosofia della zucchina in lavastoviglie.

La ragione che ha origine nel cervello umano, a volte, molte volte, è schiacciata da meccanismi che scattano nello stesso.

Obiettivamente, se mi avessero servito questo piatto

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oscurandomi la sua storia,

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e cioè che le zucchine sono state cotte a bassa temperatura (65°) per 1 ora e 45 minuti, in una lavastoviglie, in mezzo ai piatti sporchi, in un barattolo (ermetico certo), mi sarei complimentata con il cuoco. Sode e compatte, croccantine al punto giusto e saporite. La ragione, intesa in questo caso come facoltà di valutare e criticare, avrebbe promosso l’insalata. Avrebbe chiesto addirittura il bis. Poiché il cuoco ero io, la mente ha messo insieme un po’ d’informazioni, la psiche si è organizzata a delinquere e la percezione che ho avuto del piatto non ha voluto sentir ragioni. Ho voluto osare, ma ho fatto fatica a mandarlo giù. Anche se lo avessi portato ad analizzare in un laboratorio penso che avrei trovato le stesse difficoltà. Ho cucinato a impatto ambientale zero e solo una forte motivazione ecologica può spingere a cucinare in questo modo alternativo. Ecologia che diviene filosofia di vita. Mi viene da pensare all’Ecologia profonda o ecosofia del filosofo norvegese Arne Naess che pone l’uomo non più ai vertici della gerarchia dei viventi, ma lo definisce parte del Tutto dell’ecosfera in particolare. Non un semplice ambientalismo, rivolto comunque al benessere umano in un ambiente sano, ma una vera e propria religione che con i suoi principi mira a un cambiamento sociale e politico drastico. V’immaginate se un domani si imponesse a tutti l’uso della lavastoviglie come unico metodo di cottura per cercare di rimediare ai danni che quotidianamente arrechiamo all’ambiente?  Sempre meglio del Movimento dell’estinzione volontaria.

Chissà se la cucina in lavastoviglie incuriosirà qualcun altro. Sul sito ecocucina e in giro in rete si trovano altri consigli su questo metodo di cottura a bassa temperatura, con tabelle per scegliere il giusto ciclo e temperatura di lavaggio/cottura secondo i cibi. Io vi ho riportato la mia esperienza. La temperatura massima della mia lavastoviglie è di 65°, ma la Casali suggerisce una temperatura di 70°-75° per le zucchine. Ho ottenuto lo stesso un buon risultato, secondo i miei gusti, ma a chi non gradisce la cottura al dente delle verdure consiglio anch’io una temperatura più elevata. L’insalata di zucchine e prosciutto crudo della foto è stata condita semplicemente con sale, olio, peperoncino e lamelle di mandorle.

Nel precedente post ho già parlato del trio risparmio-tempo libero-igiene che un uso consapevole della lavastoviglie comporta. In questi giorni, anche grazie ai consigli che ho trovato sul sito Pril, ho posto più attenzione nell’eseguire il rituale quotidiano del lavaggio dei piatti. Ho notato che, in effetti, nello stesso tempo che impiegavo nel lavaggio a mano, oggi, relegando il compito alla lavapiatti, lavo anche tutta la cucina. Usandola abitualmente e curandola mensilmente, effettuando un lavaggio a vuoto usando il Pril curalavastoviglie 3X, ho anche ridotto lo sgradevole inconveniente dei cattivi odori. Ho scritto ridotto perché comunque può capitare che anche un piccolo residuo di cibo comporti la formazione di un fastidioso profumino. Per eliminarlo del tutto e aprire lo sportello in totale sicurezza olfattiva ho trovato molto utile l’uso di Pril deo-perls. Grazie all’esclusiva tecnologia delle Perle Attive,  che permette un rilascio controllato del profumo, la lavastoviglie profuma di fresco e con essa tutta la cucina.

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La sua azione deodorante dura circa 60 lavaggi. Io ho testato Pril deo-perls al limone, ma sono disponibili anche le versioni mela verde e odor-block.

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Che il profumo sia con voi!

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Impariamo a cucinare in una lavastoviglie brillante.

Ci vuole coraggio. Fiducia nell’ermeticità di un barattolo di vetro o di un sacchetto per il sottovuoto. Follia e curiosità. Qualche verdurina ben lavata, una lavastoviglie e un carico di piatti sporchi.

Ci vuole coraggio soprattutto a mangiare ciò che si cucina in lavastoviglie, mentre lava le stoviglie.

Tra le cose più bizzarre che ho scoperto, da quando ho un blog di cucina, vi è proprio il metodo di cottura che suggerisce Lisa Casali nel suo libro “Cucinare in lavastoviglie“. Lisa nel suo blog ecocucinain cui è possibile trovare consigli su come ridurre il proprio impatto ambientale in cucina, nel 2010 comincia a parlare della possibilità di cuocere alcuni cibi sfruttando l’acqua calda e il vapore dell’elettrodomestico. L’originale soluzione è basata sul metodo di cottura a bassa temperatura (inferiore ai 100°), tecnica ampiamente utilizzata dagli chef, che garantisce un perfetto mantenimento organolettico degli alimenti. Soprattutto le carni risultano più tenere conservando intatto il gusto. Nella sua ricerca continua di benefici in termini ambientali, Lisa si spinge oltre e suggerisce di cuocere alcuni cibi in lavastoviglie mentre lavora a pieno carico. Immaginare, ora, il barattolino o il sacchetto con il nostro pranzo, incastrato tra le stoviglie, abbracciato vorticosamente da residui di cibo e detergente, “intimidisce”, certo. Riflettendoci qualche minuto o ora in più, supponendo che i contenitori siano a perfetta tenuta ermetica, l’idea non sembrerà più così assurda. Almeno a me così è successo. Più che altro mi è sopraggiunta la curiosità di testare il risultato.

Oggi post senza ricetta. Devo ancora approfondire l’argomento e trovare il pieno coraggio di sperimentare. Comincerò con qualche verdurina e vi comunicherò i risultati al più presto.

Spingermi a parlare di quest’argomento è stata la proposta di recensire alcuni prodotti Pril dell’Henkel. Azienda tedesca fondata nel 1867 e nel 1933 nata in Italia con il nome di Henkel Italia, che da sempre persegue obiettivi non solo economici e sociali, ma anche ecologici. Proposta accettata soprattutto perché già avevo testato i loro prodotti, convinta dall’ottimo rapporto qualità/prezzo e anche perché gli stessi mi hanno risolto alcuni problemi legati agli scarichi. Da sposina, la prodigiosa scatola lavapiatti, inventata nel 1865 in America, mi era ostile. La pazienza che occorre per incastrare le stoviglie mi demoralizzava. Mi ero convinta di risparmiare tempo lavandoli a mano. Ora che la famiglia è aumentata, ogni tanto l’abbraccio. I modelli più moderni ormai sono molto efficienti ed ecocompatibili. Una lavastoviglie di classe A con il programma “eco” consuma circa 13-14 litri di acqua. A mano, considerando il solo risciacquo, a parità di stoviglie lavate, ne consumo molti di più, anche con un rapido calcolo a occhio. A parte il discorso del risparmio economico, troppo ampio e articolato, solo il fatto di avere più tempo libero a disposizione per me e la mia famiglia è già un ottimo vantaggio. Altro dato importantissimo è l’igiene che si ottiene con un lavaggio in lavastoviglie. Un solo germe in otto ore può moltiplicarsi fino a 4milioni di volte! L’alta temperatura di lavaggio rimuove molti più germi e batteri. Le mani, inoltre, non saranno aggredite dai detergenti. Grazie al sito Pril, dove si possono trovare altre utili indicazioni a riguardo, ho scoperto che la mia lavastoviglie unita all’efficacia detergente dei prodotti Pril, lava perfettamente anche a cicli con temperature un po’ più basse. Solo un’occhiata all’Econometro del loro sito e già ho cominciato a risparmiare. Per calcolare il vostro risparmio, basta inserire le vostre abitudini: vi promuoverà o vi convincerà a cambiarle, come nel mio caso.

In linea generale per ridurre i consumi e ottimizzare le prestazioni della macchina, bisogna seguire alcune regole fondamentali: rispettare le dosi di detersivo, farla funzionare a pieno caricoevitare i prelavaggi,  aggiungere con regolarità il sale e per la pulizia dei filtri (oltre a rimuovere i residui dei cibi dalle stoviglie con un tovagliolino di carta o con una spazzola, prima di inserirli nella macchina) si consiglia ogni 1-2 mesi l’uso di un additivo che, oltre a far brillare la lavastoviglie, agisce sulle parti meccaniche più nascoste rimuovendo calcare e grasso ostinato.

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Il Pril cura-lavastoviglie azione 3X, è un valido suggerimento. La sua confezione, di un rosso brillante, oltre ad essere stata una modella impeccabile, è dotata di un comodo e stabile gancio. Tolta la pellicola protettiva argentata, basta agganciarla al cestello della lavastoviglie e programmare un ciclo a vuoto ad alta temperatura, che scioglie il tappo di cera permettendo la fuoriuscita dell’additivo.

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Non ho smontato la lavastoviglie, ma dal risultato esterno, brillante e profumato, mi fido. Il Pril cura-lavastoviglie ovviamente non fa miracoli. E’ uno di quegli additivi che va usato con costanza dall’acquisto della lavastoviglie, assicurando un rendimento sempre elevato, traducendosi in risparmio economico, e che, oltre a preservare la lavastoviglie da malfunzionamenti, gli allunga l’esistenza. Una serpentina incrostata ha bisogno di più energia elettrica per portare l’acqua a una stabilita temperatura, rispetto a una pulita.

Ora che la mia lavastoviglie è messa a punto, non mi resta che in-lavastovigliare qualche pietanza e invitarvi a cena!

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Orecchiette con fave fresche, pancetta e pecorino. Inauguriamo la rubrica “Fast and Furious”.

A volte manca il tempo. Che rabbia. A volte le idee. Che rabbia.

La pasta c’è sempre.

Orecchiette con fave fresche, pancetta e pecorino.

Per 4 persone:

  • 350 g di orecchiette fresche
  • 300 g di fave fresche sgranate e sbucciate
  • 100 g di pancetta o guanciale a dadini
  • 250 g di pomodori
  • 50 g di pecorino a scaglie (ho usato un semi stagionato sardo)
  • un cipollotto fresco
  • 5-6 foglie di basilico
  • 3-4 cucchiai di olio extravergine di oliva
  • pepe o peperoncino
  • sale

Affettare finemente la cipolla e farla soffriggere nell’olio, insieme alla pancetta o al guanciale, per pochi istanti. Aggiungere le fave e far insaporire. Se le fave non sono tenerissime, aggiungere un mestolo d’acqua e far asciugare. Aggiungere i pomodori tagliati a dadini, salare leggermente e far saltare con il peperoncino o il pepe. Nel frattempo lessare le orecchiette, scolarle al dente e condirle con il sugo di fave. Aggiungere le scaglie di pecorino, il basilico tagliato grossolanamente con le mani e servire.

Ciao! Ciao!

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“Caprese”con carciofi arrostiti. La volontà anevrotica.

Non riuscirò mai a cucinare un piatto degno dei giudici di Masterchef. Leggo, guardo e studio di tutto da anni ma il mio posto è il divano. Più imparo e più scopro di non sapere. Voglio sparire, lentamente inghiottita dalle nozioni, che non soddisferanno mai il mio sapere e il mio saper fare. E’sempre poco. Scrivere questo post è una violenza autoinflitta, forse avrei dovuto prima prendere una laurea in psichiatria. All’università non mi sarebbe mai saltato in testa di sedermi davanti ad un professore, senza prima aver chiacchierato un po’ con  Isaac Newton in persona. Quando scoprii che era morto, abbandonai. In quel preciso istante cancellai per sempre la mia parte nobile, la parte che avrebbe dovuto mettere a frutto umilmente gli investimenti fatti su di me. Nessuno mai è riuscito a spronarmi. Le parole di incoraggiamento, dure, amorevoli, i bei voti e i complimenti dei professori non hanno mai funzionato. Ero una pietra, lo sono tutt’ora. Assenza completa di sentimenti. Nella mia lotta contro me stessa, ho cercato le cause scatenanti di questo malessere immobilizzatore. Nessuna. Infanzia felice, genitori equilibrati, traumi nulli. La terapia però l’ho trovata. Un bel calcio in…nel sedere!

Il post non nasce a caso. Col cavolo l’avrei scritto! Me l’hanno suggerito le pagine nere, tristi, agghiaccianti delle adolescenti, e non solo, che periodicamente aggiornano i loro blog riportando le loro vittorie sulla bilancia. Sono loro che hanno trovato me, cibandosi ossessivamente di immagini. Temono un piatto di pasta più della morte. Si scambiano consigli su come perder peso e come mentire alle persone che stanno loro accanto. Alcune invocano l’anoressia come una salvezza. Esortano all’anoressia. Ho constatato che molti di questi blog, vengono oscurati dalla polizia postale. Cambiano nome e rispuntano sotto forma di nuove filosofie alimentari. Dai blog pro-Ana e pro-Mia, si passa alla Thinispiration. Nuovi forum blindati, vere e proprie sette devote alla dea Ana. Prove d’ingresso e braccialetti identificativi. Si danno forza a vicenda nella lotta contro il grasso, contro la carne. Alcuni blog danno l’impressione di essere solo urla di disperazione. Il fenomeno dei forum, assume invece un gusto più politico, dove il sintomo anoressico  diviene il fattore aggregante e distintivo. E’ logico pensare che in questo clima chi già soffre di un disturbo alimentare, possa aggravarsi, chi invece non ne è affetto, possa rimanerne coinvolto per emulazione. Le cause dei disturbi legati all’alimentazione, non sono chiare, come per quasi  tutti i disturbi psicologici. Nessuno di noi ne è immune. C’è un aspetto che mi ha colpito. Il totale autocontrollo che le persone affette da anoressia hanno nei confronti del cibo. Quasi invidiabile. Approfondendo un po’ l’argomento, ho scoperto che è errato attribuirlo alla forza di volontà. Bisogna fare una distinzione tra forza di volontà nevrotica e anevrotica. La forza di volontà anevrotica è quella che ci permette di raggiungere i nostri obiettivi senza ansia e stress. Una sua mancanza, unita al desiderio di raggiungere  obiettivi troppo ambiziosi e in breve tempo, scatena una serie di atteggiamenti poco equilibrati. Ci si arrende, nel mio caso, o ci si impone un ossessivo autocontrollo. In tutti e due i casi si rischia l’annullamento. Basta veramente poco a far scattare questo meccanismo nel cervello. Scrivo questo post, soprattutto rivolgendomi ai genitori ignari di questo fenomeno che sta avvenendo in rete. Ad una sana educazione alimentare, oggi bisogna unire una sana educazione all’uso di internet. Scrivo questo post anche per me. Per sfiorare certi temi, non bisogna essere per forza Freud. Vecchia Ida -1, nuova Ida 0.

Nei miei periodi di dieta dimagrante o di mantenimento, ad una cosa non potrei mai rinunciare: alla mozzarella. Di latte di bufala, intendo. La mia non è passione, ma un’estasi. Di solito non arriva a tavola. A volte non arriva nemmeno a casa. E’uno dei doni che amo ricevere, ma anche fare. Se proprio devo servirla nel piatto, mi piace farlo insieme ad un bel pomodoro. La caprese è uno dei piatti più semplici e soddisfacenti che conosca. Quando mancano i pomodori, mi consolo con i carciofi arrostiti.

Non scrivo le dosi, perché non è una vera e propria ricetta, ma un’idea. Di solito uso calcolare un paio di carciofi e 3-4 bocconcini di mozzarella a testa se decido di servirla come piatto unico, accompagnato con un fetta di pane, oppure un carciofo e 2 bocconcini se decido di servirla come secondo.

  • Carciofi
  • bocconcini o fette di mozzarella
  • olio extravergine di oliva quanto basta
  • sale
  • qualche rametto di timo e qualche foglia di menta (ma anche solo prezzemolo, o niente)
  • sale quanto basta

Privare i carciofi delle foglie esterne più dure, tagliarli in quattro e metterli in acqua acidulata con qualche goccia di limone, per non farli annerire. Sbollentarli per 2-3 minuti in acqua, scolarli, ungerli leggermente con un goccio di olio extravergine e grigliarli (piastra elettrica o in ghisa o brace). Tritare grossolanamente le erbette e emulsionarle con qualche cucchiaio di olio extravergine e il sale, in pratica sbattere il tutto con una forchetta. Affettare la mozzarella, o dividere in quarti i bocconcini, unirli ai carciofi, precedentemente fatti raffreddare e condire con l’emulsione. Consiglio di consumare questa “caprese” alternativa al momento. I carciofi dopo un po’ tendono ad acquisire un colore verde innaturale.

Buon sano appetito!

Ringrazio Valentina de “L’aroma del caffè” per avermi assegnato il primo posto al suo contest “La cucina del cuore”.

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Brioche a 4 capi. Intrecci a volontà.

Le linee spezzate della mia vita. Percorsi sinuosi, curve cieche, fruste impietose. Tatuano la mente e conducono all’imprevedibilità degli eventi.

Brioche a 4 capi

Non ho mai capito se la mia esistenza, finora, è stata segnata da una timida volontà o da una lussuosa non volontà volontaria.

Brioche a 4 capi. Interno soffice.

Per 11 brioches (del peso di circa 70 gr, cotte)

  • 400 gr di farina “00” ( oppure “0” oppure manitoba)
  • 200 gr di burro a temperatura ambiente
  • 100 gr di zucchero a velo
  • 10 gr di lievito di birra disidratato o poco più di mezzo cubetto di quello fresco
  • 4 uova a temperatura ambiente
  • i semi di mezza stecca di vaniglia
  • la scorza grattugiata di un’arancia
  • un pizzico di sale
  • un tuorlo e un pò di latte per spennellarle

Setacciare la farina insieme al lievito, formare una fontana e inserirvi tutti gli ingredienti tranne il burro. Nel caso del lievito di birra fresco, scioglierlo prima in un dito di latte tiepido. Lavorare energicamente l’impasto, sbattendolo sul piano di lavoro più volte, fino ad ottenere un impasto omogeneo che si stacca in un sol pezzo. Con un’impastatrice, lavorare con il gancio per impasti medi fino a quando la pasta si stacca dalle pareti della ciotola, ribaltando di tanto in tanto l’impasto(se risultasse troppo appiccicoso aggiungere un cucchiaio di farina, al contrario un goccino di latte. E’un impasto comunque che più si lavora e più diviene elastico e omogeneo, anche se all’inizio l’impresa, a mano, sembrerà ardua). Aggiungere il burro a pezzettini, poco alla volta, continuando ad impastare energicamente fino a completo assorbimento. Continuare a lavorare fino ad ottenere un impasto setoso ed elastico. Con l’impastatrice, una volta assorbito il burro, montare il gancio per impasti duri e continuare per alcuni minuti. L’impasto è pronto quando si staccherà in un sol pezzo. Coprire con un canovaccio umido o con la pellicola per alimenti e far lievitare in un luogo riparato. Risultati ottimali si ottengono ponendo l’impasto, dopo la prima lievitazione a temperatura ambiente fin quasi al raddoppio, in frigorifero per circa sei ore(o tutta la notte), avendo cura di sgonfiarlo prima con il palmo della mano, per rallentare la crescita. Passato il tempo, riportare l’impasto a temperatura ambiente, rovesciarlo sulla tavola di lavoro leggermente infarinato e piegarlo su se stesso un paio di volte senza impastarlo, ma battendo dei piccoli colpetti su di esso.

Ora il divertimento. Staccare palline di 80 gr l’una e dividerle in 4 parti uguali. Formare, con ogni quarto, un cilindretto lungo circa 16-17 cm, assottigliando leggermente in più le estremità per un migliore effetto estetico. Intrecciare i quattro capi secondo lo schema. L’ultimo passaggio si ottiene nascondendo le stremità nella parte inferiore.

Brioche a 4 capi. Schema di formatura.

Porre le brioches così ottenute su una teglia ricoperta di carta da forno. Una volta formata l’ultima, la prima nel frattempo risulterà lievitatissima. Sangue freddo e aspettare che lievitino tutte, coperte da un canovaccio (una soluzione è quella di porle via via che si formano nel frigorifero, io non l’ho fatto e non ho avuto problemi). Preriscaldare il forno a 200° ventilato. Dopo una mezz’oretta, dovrebbero apparire gonfie e leggerissime. Spennellarle con un tuorlo d’uovo mescolato ad un goccino di latte, aggiungendo, se gradita, la granella di zucchero. Infornarle nel forno caldo, portando la temperatura a 180°. Far cuocere per una quindicina di minuti. Se dovessero colorirsi troppo abbassare la temperatura. Una volta raffreddate, si possono congelare. Riportate a temperatura ambiente, con o senza l’ausilio del microonde, e scaldate leggermente, ritrovano la fragranza e la morbidezza. Di solito, la sera prima le faccio scongelare in frigo e la mattina le scaldo leggermente.

La ricetta è un misto di ricette provate e modificate secondo i miei gusti. Lo schema dell’intreccio l’ho trovato qui.

Questa ricetta è presente anche su “The Breakfast Review“.

Buon divertimento!

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Tartufo “gelato” al cioccolato. Il pusher.

La natura è il pusher dell’amore. All’improvviso sbuca dal vicoletto, prima ti adesca con una dose di feromoni e poi ti fa viaggiare con la feniletilamina (FEA). Quando passa alla dopamina, il vicoletto diviene un luogo abituale. Il successo a questo punto dipende dalla fortuna di avere gli ormoni sincronizzati, ma soprattutto dall’abilità che abbiamo di tenere lontano il partner da altri feromoni. Io e lui avevamo tutti gli ingredienti. Non bastavano. Ci voleva un pizzico di destino, una manciata di coincidenze e brindare con un boccale caduto in piedi. I vecchi stupefacenti sono un tenero ricordo. Provata la serotonina, non si torna indietro. Si passa direttamente all’ossitocina.

Siamo anche esseri romantici. La poesia dell’amore tocca scriverla a noi.

Tartufo al cioccolatoIl “cibo degli dei” è un altro spacciatore degli ormoni dell’innamoramento e del buonumore. Non a caso a San Valentino è tradizione regalare scatole di cioccolatini. Io amo manipolarlo prima un pò e trasformarlo in una dedica personalizzata.

Non è un vero gelato e nè un semifreddo, la preparazione e gli ingredienti sono diversi, ma nella sua semplicità è un dolcino d’effetto, dalla giusta consistenza e soprattutto non ne potrete fare più a meno. Si prepara con facilità, si congela e si sorprende.

Per 4 formine semisferiche di 8 cm di diametro:

  • 400 gr + 100 gr di panna fresca da montare
  • 60 gr di latte
  • 60 gr di cioccolato fondente al 50%
  • 40 gr di cacao amaro + quello sufficiente a ricoprirli
  • 45 gr di zucchero + un ulteriore cucchiaio

In un pentolino amalgamare il latte, 45 gr di zucchero e il cacao, fino ad ottenere un composto liscio. Aggiungere il cioccolato spezzettato e far sciogliere su fuoco debole, sempre mescolando. Si otterrà un composto denso. Far raffreddare.

Aggiungere 400 gr di panna non montata poco alla volta e amalgamare mescolando delicatamente. Far raffreddare abbondantemente in frigo. Montare il composto con uno sbattitore elettrico, fino ad ottenere una crema ferma. Riporre in frigo e montare i restanti 100 gr di panna, freddissima, con un cucchiaio di zucchero.

Riempire le formine con la crema al cioccolato, per i due terzi. Se la crema è ben ferma, si riuscirà a praticare una fossetta al centro da riempire con la panna montata. Altrimenti, far congelare leggermente le formine piene e poi praticare la fossetta. In alternativa si può utilizzare una tasca da pasticcere per iniettare la panna al centro, fino a riempimento.

Riporre in freezer. Sformarli quando sono ben induriti e, prima di servirli, tenerli una ventina di minuti a temperatura ambiente (se si utilizzano le formine in silicone, si sformeranno facilmente spingendo la base. Se si utilizzano le formine metalliche, o le tazzine o qualsiasi altra cosa rigida, immergerle per pochi secondi nell’acqua calda, facendo attenzione a non bagnare il dolce. Capovolgendoli scivoleranno nel piattino). Cospargerli di cacao amaro. Si conservano in freezer.

(La ricetta è tratta da un e-book che stampai tempo fa)

Buon San Valentino!

Con questa ricetta partecipo al contest de “L’aroma del caffè”:

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Origano fresco in foglie con salsiccia, patate novelle e olive verdi. Exit poll.

I risultati del primo exit poll, effettuato davanti ai supermercati, fruttivendoli, erboristerie, vivai e pianerottoli della mia zona, sulla domanda :”Hai acquistato l’origano fresco in foglie o quello secco?”, sono:

  • 40% non ho acquistato origano, ma perchè esiste anche quello in foglie?
  • 30% non ho acquistato origano
  • 20% secco, sono un conservatore
  • 5% ho cercato quello fresco ma non l’ho trovato
  • 5% fresco, ma confesso di averlo scoperto da poco

Numeri, tuttavia, ancora da riscontrare. Io faccio parte dell’ultimo gruppo.

Più aromatico e delicato di quello essiccato, ha donato un tocco in più al classico salsiccia e patate, soprattutto sorprendendo nella sua nuova forma.

Per 4 persone:

  • 400 gr di salsiccia fresca (ho usato una salsiccia piccante tagliata al coltello)
  • 800 gr di patate novelle (preferibilmente)
  • 100 gr di olive verdi denocciolate
  • una manciata di foglie di origano
  • 6-7 cucchiai di olio extravergine di oliva
  • 2 cucchiai di vino bianco o succo di limone
  • 2-3 spicchi di aglio in camicia
  • mezzo cucchiaio di zucchero
  • un pizzico di sale
  • peperoncino in polvere o paprika (dolce o piccante a seconda dei gusti)

Lavare le patate senza sbucciarle, asciugarle sfregandole con un tovagliolo. Dividerle in spicchi.

Privare le salsicce della pelle e tagliarle a rondelle spesse.

Lavare e asciugare le olive verdi e sminuzzarle grossolanamente.

Mescolare in una ciotolina il vino (o il succo del limone), lo zucchero, l’olio, il sale  e l’eventuale peperoncino in polvere (o paprika) con una forchetta. Condire le patate, le salsicce, l’aglio in camicia e le olive con l’emulsione ottenuta, mescolando delicatamente. Con le mani è l’ideale, oltre ad essere piacevole. Versare il tutto in una teglia e porre nel forno preriscaldato a 200°, per una mezz’oretta o fino a giusta doratura, rigirando il tutto un paio di volte. Sfornare, cospargere di foglie di origano e servire ben caldo.

Buona giornata!

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Biscotti fondenti al triplo cioccolato e nocciole. Lo schiavo.

Ho dimenticato di avere una coscienza. Per qualche ora. La colpa non è la mia. Gli stravizi natalizi e befanini me l’hanno offuscata. L’abitudine festiva ad assumere con disinvoltura massicce dosi di cioccolato, mi ha portato alla dipendenza. Oggi il mio padrone mi ha ordinato tripla dose. Io, incontrollabilmente affetta da miopia alimentare, ho eseguito.

Biscotti fondenti al triplo cioccolato e nocciole

Alcuni tipi di eccessi ci privano della libertà. Penso allora a chi eccede di beni materiali e di potere. Uno schiavo privato della capacità di giudizio, privo di equilibrio e lungimiranza, come può garantire la libertà di un popolo?

Biscotti fondenti al triplo cioccolato e nocciole.

Ho trovato questa ricetta su un numero della rivista “A Tavola”. Gli ingredienti e il procedimento mi ricordavano quelli della torta fondant au chocolat. Il risultato infatti è stato un biscotto dal cuore umido e scioglievole. La ricetta originale prevede solo cioccolato fondente e bianco.

Per circa 15 biscotti di 7 cm di diametro:

  • 75 gr di zucchero di canna
  • 1 uovo intero
  • 60 gr di farina 00
  • 120 gr di cioccolato fondente al 70%
  • 25 gr di cioccolato bianco
  • 25 gr di cioccolato al latte (o fondente, secondo ricetta originale)
  • 30 gr di burro
  • 70 gr di nocciole spellate e tostate di buona qualità
  • mezzo cucchiaino di lievito per dolci
  • un pizzico di sale

Tritare grossolanamente il cioccolato al latte e quello bianco e riporre nel congelatore fino all’utilizzo.

Sciogliere a bagnomaria, o nel microonde, il cioccolato fondente e il burro. Amalgamare bene e lasciar raffreddare leggermente.

Mescolare rapidamente, con un cucchiaio di legno, l’uovo con lo zucchero. Aggiungere il cioccolato fuso con il burro, amalgamare bene e aggiungere la farina precedentemente setacciata con il lievito.  Aggiungere le nocciole tritate grossolanamente, ricordandosi di tenerne da parte un paio di cucchiai per la decorazione, e circa la metà del cioccolato spezzettato e riposto nel congelatore. Amalgamare ben bene.

Preriscaldare il forno a 160°.

Aiutandosi con un cucchiaio bagnato, formare, su una teglia rivestita di carta da forno, dei cerchi di circa 5 cm di diametro e spessi poco meno di un centimetro. Distanziarli un pochino, perchè si allargheranno. Cospargere la superficie con il rimanente cioccolato spezzettato e le nocciole tritate, facendoli affondare leggermente con le dita.

Infornare e lasciar cuocere per massimo 15 minuti. Devono rimanere morbidi, altrimenti induriscono e non si ottiene l’effetto scioglievolezza.

Sfornare, lasciar intiepidire nella teglia e far raffreddare su una gratella. Conservare in un contenitore ermetico. Il giorno dopo sono ancora più buoni.

Tripli eccessi a tutti!

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Torta di carote (senza mandorle) soffice, leggera e facilissima. L’ortaggio felice.

Finalmente normalità. Ebbene si, sono quel tipo di persona che ama la vita di tutti i giorni. Nei periodi di festa mi muovo impacciata come un orso sorridente. L’effetto non può che essere spaventosamente ridicolo. Me ne accorgo, e a testa bassa, accompagnata dal senso di sconfitta sociale, mi avvio a passi pesanti verso il mio solitario bosco. Lasciando alle spalle le luci, i brindisi e i baci reciproci. Esplosa la bolla dei nuovi propositi per l’anno nuovo, riposta la calza della Befana da riciclare l’anno prossimo, serena rientro nella mia confortante tana dei giorni feriali. Sarà anche che il Natale in una città che non è la mia lo avverto di plastica.

Le carote sono un pò come i giorni comuni, buone a fare il brodo, indispensabili in alcuni soffritti. Raramente sono attrici protagoniste sulle nostre tavole. Sempre presenti però nei nostri frigoriferi. Non pretendono nulla, sono modeste, sanno stare al loro posto. Ispirano serenità. Comincio dunque il mio periodo dei giorni pallidi festeggiando con una torta comune, fatta con un ortaggio comune e finalmente felice di non essere solo sbollentato o soffritto. Riprese le mie abitudini, spontaneamente e senza obblighi di calendario, vi auguro di trascorre ogni giorno dell’anno festeggiando la vita.

Per una teglia di 24 cm di diametro:

  • 250 gr di farina 00
  • 160 gr di carote (circa due medie)
  • 165 gr di zucchero
  • 2 uova a temperatura ambiente
  • 60 gr di latte intero a temperatura ambiente
  • 30 gr di olio di semi (mais, girasole)
  • la scorza grattugiata di un’arancia
  • 1 bustina di lievito per dolci vanigliato

Il procedimento è molto semplice. Non c’è bisogno di montare albumi a neve o incorporare la farina delicatamente. La torta è lievitata molto ed è risultata molto soffice.

Preriscaldare il forno a 170° (io ventilato).

Dopo aver pelato e lavato le carote, triturarle in un mixer insieme allo zucchero, le uova, un pizzico di sale e la scorza grattugiata dell’arancia. Aggiungere, senza spegnere il mixer, nell’ordine, il latte, l’olio e la farina, setacciata più volte insieme al lievito, a cucchiaiate. Far amalgamare il tutto per qualche altro secondo, spegnere il mixer e versare nella teglia imburrata e infarinata. Infornare nella parte medio bassa del forno e far cuocere per mezz’ora circa o fino a quando sarà ben dorata e lievitata. Spegnere e lasciar raffreddare per qualche minuto nel forno socchiuso. Sformare la torta e lasciar raffreddare su una gratella.

Se non si possiede un mixer o un frullatore, una volta grattugiate le carote, è possibile usare le fruste elettriche o un semplice cucchiaio di legno.

E’un dolce adatto alla colazione o alla merenda. Per renderlo ancora più leggero si può diminuire il quantitativo di zucchero a 150 gr e usare il latte parzialmente scremato. La ricetta originale proviene da questo forum. Leggermente riadattata secondo i miei gusti.

Se avete poi bisogno di un cake topper per la vostra torta, vi invito a visitare il mio negozio on line “Lady Topper“. Troverete una Ida Briciole in cucina in versione zuccherosa!

Sereno 2013!

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Pane cotto con i broccoli di rapa. Ricordi chiari e ricette distorte.

Le seggioline impagliate davanti al caminetto. Faccia rossa e spalle chiatrate (ghiacciate). Le bucce d’arancia buttate sulla brace, deodorante per la casa. La fiamma ipnotica. Panorama innevato. Il colore dell’inverno. Il bucato intirizzito. La pignata con i fagioli. Le castagne. La granita dei 1000 metri: la sorbetta, neve candida e mosto cotto. Il presepe di terracotta. Il profumo delle frittelle di pasta di pane, come sveglia mattutina. Mia nonna ai fornelli a costruire i miei ricordi.

Non solo i miei ricordi, ma anche i miei vizi. La costringevo a preparare quasi sempre dei piatti alternativi per me. Ero difficile. Tutti ragù? Io sugo finto, ossia al pomodoro. Tutti parmigiana? Io mozzarella. La criatura andava accontentata. Spesso per cena preparava uno dei piatti poveri della tradizione lucana, un piatto di riciclo, il pane cotto con le uova. E io? Mozzarella. L’uovo in camicia andava contro i miei canoni infantili di cibo, ma ne ero segretamente attratta. Il profumo ha provato più volte a scuotermi, ma niente. Irremovibile. E continuo ad esserlo. Mangio le uova, ma trasformate, intere proprio no. Per ora. Non avendo distorto il ricordo, ho distorto la ricetta, soppiantando le uova con i broccoli di rapa. Una variante del pane cotto più tipicamente pugliese. Si, a Napoli non esistono le cime di rapa, ma i vruoccoli di rapa. Stesso sapore, ma niente cimette. Mia nonna, cullata dalle nuvole, approva. Mia madre(vivissima), pure, ma preferisce le cimette.

Broccoli di rape

Per 4 persone:

  • 4 fascetti di cime di rapa o simili
  • 3-4 fette di pane raffermo (il pane deve essere asciutto, non secco, ancora affettabile e preferibilmente di grano duro, altrimenti consiglio di eliminare la mollica. Il rischio è quello di ottenere una pappetta collosa. In alternativa, si può usare il pane fresco, leggermente tostato. La ricetta è semplice, ma ha le sue insidie.)
  • uno spicchio d’aglio
  • sale, olio extravergine d’oliva e peperoncino quanto basta
  • polvere di peperone rosso (facoltativo)(In Lucania si ottiene triturando i peperoni cruschi, ossia un particolare peperone rosso essiccato. Famoso quello  I.G.P. di Senise(PZ)) in alternativa un pò di paprika dolce.

Mondare la verdura, eliminando le foglie più dure, sciacquarla più volte e lessarla in abbondante acqua bollente. In una padella capiente, far soffriggere l’aglio e il peperoncino in un pò d’olio extravergine d’oliva (anche un pò di polvere di peperone rosso se gradita, che colora leggermente l’olio). Aggiungere il pane tagliato a pezzi grossolani, la verdura al dente, non scolata, ma presa con un forchettone, e il sale. Far insaporire e se è il caso, ossia se il pane dovesse risultare ancora duro, aggiungere un mestolo d’acqua di cottura della verdura tenuta da parte. Personalmente la preferisco abbastanza asciutta, ma si può decidere di tenerla più brodosa. Spegnere il fornello, coprire e lasciar riposare qualche minuto. Servire aggiungendo un filo d’olio.

Semplicemente, buona giornata.

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Chicche di patate con cavolfiore e prosciutto. Le cavolate della matematica.

 “Le nuvole non sono sfere, le montagne non sono coni, le coste non sono cerchi, e la corteccia non è liscia, né il viaggio del lampo va in linea retta” (Benoît Mandelbrot, matematico polacco, 1924-2010).

Tutta la matematica, nello specifico la geometria (euclidea) che abbiamo studiato a scuola non ci serve per capire la bellezza, apparentemente caotica, delle forme che più ci affascinano in natura. Perciò spesso, quasi sempre, appare arida e noiosa. Bisogna essere dei visionari per comprenderla. Bisogna essere dei visionari unici per formulare nuove teorie. La scuola dovrebbe servire principalmente ad aprire le menti. Le nozioni, date di nascita dei vari Papi, ben presto svaniscono. La possibilità che ci dovrebbero offrire gli insegnanti è quella di affacciarci al mondo attraverso delle finestrelle e di farcelo guardare non solo con gli occhi, ma con il cuore e la mente. Mandelbrot apparteneva alla schiera dei cani sciolti matematici come Pitagora, Keplero e Newton (tabelline, leggi dei movimenti dei pianeti, gravità). Ha rivoluzionato la matematica e ci ha svelato la segreta armonia della natura teorizzando una nuova geometria: la geometria dei frattali. A questo punto chi già ha capito dove intendo arrivare dirà: “ecco, ora ci fa un esempio del cavolo”; chi non lo sa dirà: “questo post ci sta come il cavolo a merenda”; altri ancora diranno: “che cavolo stai dicendo, Ida!”. Io vi farò un cavolo di esempio.

Quando acquisterete il cavolfiore per realizzare questa deliziosa ricetta, osservatelo dapprima intero. Staccatene una cimetta. Vi sembrerà un cavolfiore in miniatura. Staccate poi una cimettina dalla cimetta. Vi sembrerà una miniatura ancora più piccola. E così via. La forma del cavolfiore non è cubica, conica o sferica(bè, più o meno), ma è un esempio di frattale. Ossia un “oggetto geometrico che si ripete nella sua forma allo stesso modo su scale diverse, ossia le sue parti non cambiano forma se osservate al microscopio”. Come gli alberi (c’è il tronco, poi i rami che sono dei piccoli tronchi, che a loro volta riportano rametti più piccoli), i fiocchi di neve, le montagne, le coste geografiche, le nuvole, i vasi sanguigni, i battiti cardiaci, i processi neurali e la distribuzione delle galassie nell’universo. Mandelbrot ha dato una forma al caos. La nostra mente è attratta istintivamente dalla geometria frattale, forse perchè siamo circondati da essa o forse perchè ne siamo pervasi. I frattali hanno influenzato l’arte, la musica e anche l’economia. Ha trovato numerose applicazioni anche nella vita quotidiana: dalla progettazione di antenne per la telefonia mobile, ai programmi di compressione per immagini digitali. (Fonte: The Telegraph)

                                               Jakson Pollock, Blue Poles, Number 11, 1952

“E ai frattali è arrivato anche l’artista, non con l’analisi del matematico, ma con l’intuizione, dimostrando ancora una volta quale profondo legame esista tra matematica e arte.” (Fonte: Polymath)

Se le parole usate nel modo giusto sono poesia per l’anima, la matematica, capita nel profondo fino a divenire immagine, diviene poesia per la mente, un aiuto a descrivere e a comprendere nel profondo il fascino della natura. Un giorno, uno dei professori più estrosi, temuti e “densi”, dell’Università che ho frequentato, è entrato in aula, ha scritto sulla lavagna una delle formule dell’elettromagnetismo più difficili da capire, dal sintetismo estremo, si è girato ci ha guardato e ci ha detto: “Uagliò! (facoltà di ingegneria, Napoli, unica donna in aula..io) ‘sta formula vi parla..ma voi non ascoltate”. Forse non ho mai capito quella formula, forse il professore non è mai riuscito a spiegarla, ma la sua frase è stato uno stimolo a ricercare le cose belle e nascoste della natura. Che poi non ci riesco o meglio non mi applico più di tanto, questo è un altro discorso.

Per 6 persone (circa):

   Per le chicche:

  • 600 gr di patate (preferibilmente a pasta bianca, più farinose)
  • 200-250 gr di farina “00”
  • 1 uovo (togliere parte dell’albume)
  • 100 gr di parmigiano grattugiato

Per il condimento:

  • 500 gr di cavolfiore
  • uno spicchio d’aglio
  • 100 gr di prosciutto crudo a cubetti
  • pepe o peperoncino
  • un ciuffetto di prezzemolo
  • sale e olio quanto basta

Preparare il condimento soffriggendo le cimette di cavolfiore, precedentemente lavate, insieme all’olio e l’aglio schiacciato. Pepare(o aggiungere il peperoncino), salare e lasciare insaporire qualche minuto. Aggiungere un mestolo d’acqua, coprire e portare a cottura. Spegnere il fuoco, schiacciare le cimette con una forchetta, aggiungere il prezzemolo tritato e il prosciutto a cubetti.

Per le chicche, lavare le patate e cuocerle, con la buccia, in abbondante acqua, partendo da acqua fredda. Una volta cotte, pelarle ancora calde e schiacciarle con lo schiacciapatate. Far raffreddare e impastarle energicamente con la farina, l’uovo(al quale andrà tolto parte dell’albume) e il parmigiano, fino ad ottenere un impasto liscio e omogeneo. Se l’impasto dovesse risultare un pò appiccicoso aggiungere altra farina, ma non troppa, altrimenti oltre ad indurirsi sapranno solo di farina. Ciò dipende molto dalla qualità delle patate scelte. Sulla spianatoia infarinata, dividere l’impasto in più pezzi, formare dei cilindri spessi circa un dito e tagliarli a tocchetti. Infarinarli leggermente e cuocerli in abbondante acqua salata fino a quando saliranno in superficie. Raccoglierli con un mestolo forato e far mantecare in padella con il condimento aggiungendo un mestolo di acqua di cottura. Impiattare e servire.

Buona armonia universale a tutti!

Colgo l’occasione per ringraziare Claudia di “Scorza D’Arancia” per avermi dato l’opportunità di partecipare al suo contest e vincere!!!

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Calamarata con pesto di cavolo nero e olive…nere.

Dolcevita nero, giaccone nero, sciarpa nera, borsa nera, jeans blu. Giornata nera, cielo nero. Ferrari nera..ci sarebbe stata bene. Mi piacerebbe vestirmi di rosa, lo giuro. Ho provato a cambiare guardaroba. Non dimenticherò mai il completo turchese fosforescente che mi consigliò, impose mia madre per farmi variare un pò colore. E i pantaloni blu benzinaio abbinati ad una giacca arancione con i bottoni dorati, secondo consiglio di mio padre. A chi mi chiede perchè vesto quasi sempre di nero, al massimo grigio, io rispondo per traumi infantili. Provate a darmi torto. Il nero è spensierato, il nero snellisce. Solo un pizzico di rosso ogni tanto quando voglio strafare, ma sulle labbra. Immaginatemi ora tornare a casa dal mercato con i miei fascetti di cavolo nero nel sacchetto e la bustina di olive anch’esse in tinta. Nessuno era più abbinato di me!

Il cavolo nero, con le sue foglie bitorzolute e il sapore intenso, molto vicino a quello dei broccoli e alle cime di rapa, non è molto diffuso dalle mie parti. Stamattina è stata una sorpresa per me trovarlo e non me lo sono fatto scappare. E’stata un’illuminazione. Facile da pulire, basta eliminare la parte bianca centrale legnosa come spiegato in questo breve video, qualche minuto in padella ed è pronto. Decisamente molta personalità in quelle foglie.

Per 4 persone:

  • 360 gr di pasta
  • 2 fascetti di cavolo nero (non li ho pesati, ma tener presente che rendono bene)
  • una manciata di olive nere (io ho usato le olive al forno, le taggiasche sarebbero l’ideale)
  • 30-40 gr di parmigiano grattugiato
  • una manciata di pinoli o mandorle
  • uno spicchio di aglio
  • una decina di pomodorini dolci, preferibilmente datterini
  • olio extravergine di oliva e sale quanto basta
  • una tazzina di vino bianco
  • peperoncino facoltativo

Pulire le foglie del cavolo eliminando la parte bianca legnosa, tenendo i germogli interni più teneri. Sciacquare più volte.

In una padella capiente far soffriggere per pochi secondi lo spicchio d’aglio schiacciato in un pò d’olio. Tuffarvi le foglie di cavolo non perfettamente sgocciolate e far asciugare senza coperchio. Aggiungere il vino bianco e portare a cottura. Il mio consiglio per questa preparazione è di non farle cuocere troppo, devono rimanere abbastanza sode e corpose. Salare e far raffreddare.

Preparare il pesto con una metà del cavolo cotto, frullandolo insieme ai pinoli (o mandorle), al parmigiano e ad un pò di olio.

Cuocere la pasta e, un pò prima della cottura al dente, scolarla e terminare la cottura mischiandola al cavolo rimasto in padella e ai pomodorini, aggiungendo un pò di acqua di cottura tenuta da parte. Spegnere il fuoco, aggiungere le olive nere denocciolate (non molte, altrimenti diviene troppo amaro), il pesto e un pò di peperoncino, se gradito. Servire subito.

Facile, veloce, saporito e insolito.

Buona giornata!

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Panini all’olio con pomodori secchi. L’effimero.

Una poesia di due versi sull’effimero. Una poesia che nasce e muore, nel giro di poche parole. Una poesia che racchiude il senso della breve vita della farfalla. Chissà prima o poi ci riuscirò. A meno che questa mia speranza non finisca per essere essa stessa effimera. I ricordi sono effimeri. Nel momento in cui ci vengono in mente, sono già passati. Siamo alla continua ricerca dell’infinito e dell’eterno, perchè ci hanno insegnato a non accontentarci delle cose provvisorie. Effimera è la felicità. Chi si accontenta gode. Le delusioni sono effimere. “Permanenza e durata non sono mai garantite a nulla, nemmeno al dolore”, sosteneva Marcel Proust. L’effimero, sostantivo dalla doppia natura. Condanna e consola.

Ci sono lacrime nella natura delle cose e la certezza dell’effimero ci tocca il cuore. (Virgilio)

Siamo esseri romantici. Non condanniamo l’effimero. Scopriamone il vero senso e godiamone.

Con il cervello totalmente in fumo, non essendo ancora una poetessa, vi lascio la ricetta di questi panini leggendariamente dall’effimera fragranza. Morbidissimi e leggerissimi (nel senso del peso). Ho colto l’attimo, rischiando l’ustione, e li ho assaggiati quasi appena sfornati. Per fare quest’esperienza o vi appostate davanti ad un forno alle prime luci dell’alba o ci provate comodamente a casa. Vi garantisco l’ottimo risultato della ricetta. Ma anche questa potrebbe essere un’effimera promessa.

Per circa 10 panini:

  • 500 gr di farina “00”
  • 200-220 ml di acqua
  • 50 gr di olio extravergine di oliva
  • 2 cucchiaini rasi di sale
  • 2 cucchiaini rasi di zucchero
  • mezza bustina di lievito di birra disidratato o mezzo cubetto di quello fresco
  • una decina di pomodori secchi sott’olio (opzionali)
  • acqua e olio quanto basta per spennellare

Setacciare la farina in una ciotola. Unire il lievito, se disidratato (quello fresco va sciolto in un pò di acqua tiepida, prelevandola dal quantitativo previsto dalla ricetta), lo zucchero, il sale (il sale non dovrebbe stare a contatto a lungo con il lievito, ma visto che aggiungeremo subito l’acqua, non fa molta differenza prima o dopo) e l’acqua a filo, sempre continuando a lavorare, fino ad ottenere un composto al limite dell’appiccicoso (a me sono bastati poco meno di 220 ml). Continuare ad impastare per una decina di minuti e aggiungere l’olio. Continuare a lavorare per un’altra decina di minuti. Il composto diventerà sempre più morbido. Se risulta troppo appiccicoso aggiungere un cucchiaio di farina setacciata. Aggiungere i pomodori secchi spezzettati e amalgamare. Una volta ottenuta una palla liscia e omogenea, coprire la ciotola con la pellicola per alimenti o con un canovaccio umido, porre in un luogo riparato ed attendere il raddoppio. Dividere l’impasto in dieci palline e, su una spianatoia leggermente infarinata, dare loro con i polpastrelli la forma di  rettangoli di 10×15 cm circa. Avvolgerli su se stessi e porli su una placca da forno ricoperta da quella meravigliosa invenzione che è la carta da forno, abbastanza distanziati (anche se lievitando si attaccano un pò, poco male, si staccheranno una volta cotti). Coprire con un canovaccio e far lievitare ancora un’oretta o fino a quando non appariranno belli gonfi. Preriscaldare il forno a 200° statico e porre alla base dello stesso una ciotola con un pò d’acqua, per creare un ambiente umido che favorisce la lievitazione in forno, evitando il formarsi immediato della crosticina. Spennellarli con un’emulsione di acqua e olio nelle stesse quantità (ossia sbattere acqua e olio con una forchetta, come si fa per la frittata) e infornare nella parte medio bassa. Sorvegliateli! Non devono bruciarsi. Appena cominciano a dorarsi, abbassare gradualmente il forno fino a 170°. Almeno con il mio forno devo fare così. Appena appariranno ben dorati, spegnere il forno e lasciar intiepidire con lo sportello socchiuso. Assaggiarli subito. Si sono conservati bene fino al giorno dopo. Hanno perso la fragranza, ma erano buoni lo stesso. Al limite ripassarli in forno per qualche minuto, ma non conviene (un fornetto è l’ideale).

Buona transitorietà a tutti!

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Linguine con peperoni, pistacchi e formaggio primo sale. Ad orecchio.

Se mia madre è il Pavarotti del gateau di patate, io sono una bambina dello Zecchino d’oro. Lo stesso pezzo lo eseguiamo in maniera totalmente diversa. Cambia il timbro. Il do suonato da un pianoforte è diverso dalla stessa nota suonata da un’ocarina. Non mi ha mai dato le dosi precise. Non ce l’ha. E’ una di quelle pietanza dove si va ad occhio. Vi posso assicurare che ogni volta che lo prepara, può cambiare leggermente l’armonia, ma il timbro è sempre lo stesso. Lo riconoscerei tra un milione. Se molti piatti si preparano ad occhio, a me piacerebbe tanto saper cucinare almeno ad orecchio. Saper riprodurre fedelmente un piatto assaggiato altrove. Missione impossibile. Ci sono troppe variabili da bilanciare, prima fra tutte la scelta della qualità degli ingredienti. Non mi resta che interpretare.

Questo semplice primo lo mangiai tempo fa in un ristorantino. Mi colpì per la sua leggerezza, per la presenza dei peperoni tritati e per una sua particolare nota che ho tradotto come agrodolce. Questo è il mio spartito, da alunna delle scuole medie nell’ora di musica, a voi l’interpretazione e l’esecuzione.

Per 4 persone:

  • 380 gr di linguine
  • 2 peperoni rossi medi
  • una manciata di pistacchi salati e tostati
  • qualche goccia di limone
  • 5 cucchiai di olio extravergine di oliva
  • sale e pepe
  • 150 gr di formaggio primo sale o altro formaggio tenero
  • una manciata di foglie di basilico

Lavare i peperoni, eliminare i filamenti bianchi e tritare grossolanamente nel mixer. Farli cuocere appena in una padella con un cucchiaio di olio e una tazzina di acqua.

Sgusciare e tritare i pistacchi e mescolarli con qualche goccia di succo di limone, il restante olio, il sale e il pepe. Unire i peperoni e il formaggio tagliato a cubetti. Lasciare insaporire.

Nel frattempo cuocere la pasta, scolare al dente e aggiungerla al composto di peperoni. Decorare e profumare con qualche foglia di basilco e servire. Semplice e particolare.

Buona giornata musicale!

Con questa ricetta partecipo al contest di ARCHCOOK-Sapori di fine estate

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Melanzane alla scapece. Crisi profonda.

Un libro di educazione tecnica delle scuole medie, uno di agraria e uno di ricette.

Candele.

Gli indirizzi degli amici lontani.

Un vecchio grammofono e qualche vinile.

Sono rimasta per qualche giorno senza pc e, oltre ad aver riscoperto l’uso della penna per scrivere il post in brutta copia, ho cominciato a stilare una lista delle cose, per me furbe e necessarie, per far fronte alle conseguenze di una vera e seria crisi mondiale. Ho riflettuto molto e ho tirato un sospiro di sollievo. La nostra società ce la può fare ad uscire dal medioevo dei giorni attuali. Abbiamo il passato dalla parte nostra, visto che il futuro ci è ostile. Ognuno si specializzi in qualcosa: scienza delle costruzioni di capanne, scienza delle coltivazioni di frutta e verdura locali, scienza dell’allevamento animale, scienza delle coltivazioni e usi delle erbe medicinali, scienza delle trasformazioni dei cibi e della loro conservazione. Impariamo ad accendere il fuoco sfregando due legnetti e il gioco è fatto, siamo usciti dal secolo oscuro e siamo entrati nel paleolitico. Impariamo ad essere un pò più furbi noi, finalmente, e cominciamo subito.

Immaginiamo di essere senza frigorifero e di dover preparare un pranzo di benvenuto per i venti membri della nuova capanna vicina alla nostra. Non possiamo preparare tutto al momento, non ne abbiamo il tempo. Dobbiamo cominciare a cucinare qualcosina almeno il giorno prima e che, quindi, non si deteriori facilmente. Sappiamo che al capo tribù piacciono le melanzane. Bene ho una delle portate che fa per noi. Il problema se lo erano posto, già secoli fa, gli arabi, gli spagnoli e un cuoco dell’antica Roma, Marco Apicio autore del ” De re coquinaria”, una raccolta di ricette stravaganti, forse la più antica, redatta in realtà in più secoli e a più mani. Si suppone che in tutti e tre i casi, cercando nuovi metodi di conservazione degli alimenti, si è arrivati ad una delle invenzioni culinarie diventate un classico ormai, soprattutto nelle cucine dell’Italia Meridionale, trasformando ingredienti semplici, come zucchine, melanzane, pesci, come le alici, le anguille e i capitoni, in gustose pietanze. Alcuni suppongono che il termine “alla scapece”, derivi da asca Apicii, ossia il cibo di Apicio, altri dallo spagnolo escabeche, derivato a sua volta dall’arabo sikbag (iskebech, secondo la versione popolare) che significa carne marinata. Le contaminazioni fra le varie culture del mare nostrum ci sono sempre state, alla fine siamo un unico grande popolo. Chi ha inventato o scoperto questo metodo non ha importanza. Certo è che, pure secoli fa, c’era un gran bello scopiazzamento generale di ricette!

Tirando le somme affermiamo che la marinatura in un liquamen costituito da aceto, aglio e menta, principalmente, permette di conservare per più di qualche giorno alimenti facilmente deperibili fuori dal frigorifero. Il piatto più noto, almeno dalle mie parti, preparato in questo modo è senz’altro costituito dalle zucchine alla scapece. Vi stuzzico proponendovi la versione con le melanzane, dal sapore più deciso.

Per 4 tribali circa:

  • 3-4 melanzane medie
  • olio per friggere
  • olio extravergine, aceto, menta, aglio e peperoncino quanto basta

Lavare e affettare le melanzane, o farle a cubetti. Porle in uno scolapasta cosparse di sale, per eliminare le sostanze amare, per circa un’ora.

Risciacquarle sotto l’acqua fredda e asciugarle con un canovaccio o con carta assorbente.

Friggerle in abbondante olio bollente. Scolarle e asciugarle dell’olio in eccesso. Porle in una scodella e condirle ancora calde con una spruzzata di aceto, l’aglio a pezzettini, le foglioline di menta, un cucchiaio di olio extravergine e il peperoncino piccante. Farle marinare per un giorno, anche per una notte va bene e servire. Ottime come antipasto, su dei crostini, oppure come contorno di un piatto di carne. Sublimi in un panino, con un pò di formaggio dolce.

Buon futuro a tutti!

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Ciabattine semintegrali senza impasto. Perché a me non piace proprio sporcarmi le mani.

Ricetta rapida, post rapido.

Di pane senza impasto ormai se ne parla dappertutto. Basta fare una ricerchina (si, ma poi ritornate da me) e troverete una marea di spiegazioni fotografate passo passo, nonchè video ricette in quantità. La ricetta originale, del newyorkese Jim Lahey, si trova in un articolo del ” The New York Times”, qui. Ora non so se è stato proprio lui a inventarla, sta di fatto che è stato lui a diffonderla. Si tratta di un pane ad alta idratazione che non ha bisogno di essere impastato. Il risultato è talmente sorprendente che non si abbandona più il metodo. Una volta appreso, ci si può divertire a dargli forme e consistenze diverse. Cominciamo però adagio, con una cosa semplicissima. La mia curiosità era di provare ad usare la farina integrale, una farina nemica della lievitazione, a causa dell’alto contenuto di sali minerali. In poco tempo e senza fatica’, ho ottenuto delle morbidissime e leggerissime ciabattine.

Per 6 ciabatte:

  • 300 gr. di farina Manitoba
  • 200 gr. di farina integrale (l’ho presa in un panificio)
  • 300 ml di acqua (ho ridotto un pò l’idratazione, a favore della lavorabilità)
  • un cucchiaino abbondante, ma non troppo, di miele
  • un cucchiaino di sale
  • 4 gr di lievito disidratato

Setacciare le farine in una ciotola (aggiungere anche la crusca che rimane nel setaccio) insieme al lievito. Aggiungere l’acqua appena tiepida, nella quale si sono sciolti il miele e il sale. Mescolare rapidamente il composto con una forchetta, fino ad assorbimento della farina. Stop. Coprire con un canovaccio umido, con una pellicola o con un coperchio e far lievitare in un luogo riparato, fino a quando non si saranno formate tante bollicine. Il composto risulterà abbastanza liquido e appiccicoso.

Sgonfiarlo delicatamente e reimpastarlo con le mani, senza strapparlo, piegandolo su se stesso 4-5 volte. Lasciar lievitare ulteriormente. Quando si saranno riformate le bollicine, capovolgere con delicatezza l’impasto su una spianatoia infarinata e dividerlo in sei pezzi uguali. Formare con ogni pezzo un rettangolino, aiutandosi delicatamente  con i polpastrelli. Piegare ogni rettangolino  su se stesso, aiutandosi con una spatola o con un coltello, portando uno dei due lati più corti verso il centro e sovrapponendo, ai due strati così ottenuti, il lembo rimanente.

Rivestire una teglia con della carta da forno, infarinarla leggermente e porre i rettangolini piegati, con la piega verso il basso, ossia rovesciati, molto distanziati tra loro. Io ho fatto due infornate, in due teglie. Infarinare leggermente la superficie e coprire con un canovaccio. Lasciar lievitare per un quarto d’ora, poi delicatamente con i polpastrelli, cercando di non sgonfiare l’impasto, allungarli per dare loro la forma della tipica ciabatta. Coprire e far lievitare, fin quando li sentirete gonfi, morbidi e si intravederanno delle bolle appena sotto la superficie.

Nel frattempo preriscaldare il forno a 200° statico e porre un pentolino d’acqua sul fondo, per creare l’umidità necessaria a renderli ancora più morbidi. Infornare  e dopo 10 minuti circa o appena cominciano a dorarsi, abbassare la temperatura fino a 170°, gradualmente. Dovrebbero bastare ora altri 10 minuti, ma sono cotti non appena, battendo sulla superficie con un cucchiaio, si sentirà un suono secco. Sfornare e metterli a raffreddare avvolti in un canovaccio, se preferite una crosta più morbida.

Sembra complicato ma non lo è. L’ho messo a lievitare stamattina e nel primo pomeriggio era già pronto.

L’argomento pane è delicato. Non sono un’esperta panificatrice e non ho mezzi meccanici a disposizione (Babbooo Nataaaleee!!!). Vi ho parlato semplicemente di una mia esperienza positiva, riuscita più volte e con ingredienti facilmente reperibili. Se riuscite pure a reperire qualche pomodorino, un pò di provola dolce, qualche scaglia di provolone piccante e il basilico, condite il tutto con sale e olio, e ponetelo su una metà ciabatta leggermente tostata o piastrata. Per una bruschettona croccante fuori, morbida dentro.